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Un racconto di basettun

Ultimo Aggiornamento: 06/10/2009 21:25
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29/09/2009 22:27
 
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Il silenzio

Viviamo nella confusione dei rumori. Ma non me ne accorsi subito, passarono trent’anni della mia vita prima che mi rendessi conto dell’intreccio di suoni sgradevoli ch’ero costretto a subire ogni giorno. Il mio senso uditivo era tormentato ed io non ne ero consapevole, forse perché la fretta insensata di vivere mi tallonava.
Ed io correvo avanti per sfuggirla, più veloce dei miei anni che, voltandomi, vedevo tremolare e dileguarsi, come l’asfalto rovente che evapora d’estate.
Ero pazzo, conquistato dalla voglia di crescere, di raggiungere le mete sognate che forse non esistevano, che immaginavo o che venivano pubblicizzate negli spot bugiardi degli adulti. I quali, da lontano, mi ammonivano ad essere più veloce, più caparbio, e preparavano la mia strada con gli ostacoli che essi stessi avevano già superato, e che avevano ricomposto alla meglio per farmeli apparire reali, nuovi come la mia intraprendenza, invalicabili eppure fatalmente effimeri.
Approssimandomi alle difficoltà, la paura mi assaliva aggredendomi alle gambe e mi sentivo vinto, stremato, frastornato dalle grida di scherno dei grandi. Perciò mi rialzavo, inghiottivo la mia paura e riprendevo la corsa verso di loro che intanto mi spronavano: “Dai, corri più forte! Quel fosso l’abbiamo saltato tutti, sei proprio un incapace se ti fermi adesso.” E io saltavo.
Poi, un giorno, li vidi tuffarsi nel baratro, felici di averlo finalmente raggiunto, e li sentii chiamarmi durante il volo prima del tonfo finale. Era il loro ultimo ostacolo, davvero insuperabile, e mi aspettava. Allora mi fermai.
Il terrore s’impossessò di me, lo sentii avvolgermi come un tornado mentre mi voltavo per tornare indietro; e dietro di me, sapete chi c’era? Una folla di giovani che correvano e saltavano e si disperavano per raggiungere la meta prima degli altri. Afferrai la mia testa con le mani e decisi di non muovermi più, a costo di farmi calpestare.
Ora non so quanti mi hanno superato, certo sono rimasto ferito dalla loro galoppata e se sono ancora vivo lo devo alla loro stupidità. Mi hanno creduto l’ennesimo ostacolo ed hanno spiccato un balzo per evitarmi, riuscendoci quasi tutti. Bravi!
Ma io rimasi lì, e ne vidi tanti continuare la corsa, voltarsi per un attimo a chiedersi chi mai fosse quel relitto simile ad un sasso. Ero io.
Stringendo la testa fra le mani mi ero tappato le orecchie ed avevo scoperto... il silenzio.

Non è il contrario del rumore, è la somma di tutti i rumori, talmente forti da non sentirli più. Come l’avvertii la prima volta, lo penso tuttora. Quando immagino la quiete e il silenzio che ne deriva, mi figuro una selva di umani talmente chiassosi da superare il limite percepibile, che restano ad agitarsi nelle loro aspirazioni fittizie.
Il calore della terra bagnata risaliva sfiorando i tronchi e si tingeva di resina, poi affogava gli aghi e le gemme in un infuso aromatico ed io lo respiravo come una tisana. Curavo il mio olfatto, un altro senso contaminato dai miasmi della città frenetica. Avevo procurato un tappeto elastico alle mie estremità inferiori, incallite sugl’impiantiti deformanti e regalato un occhiale riposante alla mia vista, tale mi appariva la chioma dei pini così diversa dagl’intonaci.
Stavo bene con le mie mani che s’atteggiavano a conchiglia per riparare le orecchie, mi nutrivo col paesaggio brillante, rinfrescato dalla pioggia recente che tornava al cielo sotto forma di vapore. Ero io il masso che s’induriva nella statica ricerca di quiete, su cui il muschio tesseva la ragnatela di minuscole radici in cerca dei granelli di polvere.
Stavo lì, in quel bosco sorprendentemente muto che filtrava i miei veleni come un rene miracoloso, che accoglieva tutti i mali della consapevolezza e come una madre consolante mi guariva.
L’avevo scoperto per caso. Un pomeriggio volli sfuggire le vie consuete e m’inoltrai per la strada sconosciuta percorrendola tutta. Saliva a tornanti la collina gialla costeggiando orti recintati, aggirando casupole aggredite dai rovi e dalle edere, penetrando lunghi campi brulli seminati a sassi e spezzoni di tronchi bruciacchiati. Quando sembrava che volesse allontanarsi dalla città, girava improvvisa verso l’orizzonte e me la mostrava ogni volta più in basso, più lontana e irraggiungibile se non con un salto suicida, incolore e con le sue folle odiose ed afone che sembravano volermi rimproverare l’evasione.
Ma fingevo di non capire, fuggivo e deviavo lo sguardo verso la direzione prossima ed opposta, premendo il pedale dell’auto ch’era la mia cella mobile.
Inerpicandomi raggiunsi la sommità e mi fermai dove scomparve la strada, in un largo acciottolato dal quale si diramava un rigagnolo di terra che si avviava nel bosco. Percorsi per un centinaio di metri il sentiero buio e sbucai dove il cielo, abbagliante, sbiancava i tronchi e s’impossessava del prato sconvolgendone le ombre. La pietra era lì e mi sedetti, con alle spalle la notte dei pini bassi e fitti e davanti la luce che voleva penetrarli, sull’orlo del fulcro naturale per saturarmi di equilibrio.
Stavo bene in quel silenzio, dove anche il tempo sembrava fermarsi prima di varcare il limite delle tenebre, e mi regalavo le ore belle della pigrizia quando le giornate, dopo avermi smembrato con gli strattoni della fretta, del lavoro, della rabbia di tutti, mi apparivano insostenibili e inutili.
Allora mi fermavo ad aspettare il tramonto, fin dai primi minuti del meriggio mi facevo schiacciare dagli scarponi dell’esercito di pazzi e mi godevo la quiete ch’era lì solo per essere raccolta, anche se quasi nessuno la riconosceva e lei vegetava selvatica sull’altalena del buio e della luce.
Io ero il fortunato che se ne cibava, e assaporavo goloso i suoi frutti cogliendoli senza timore, come se ne fossi il padrone o il contadino accorto che l’accudiva liberandola dai rampicanti e dai parassiti.
L’assenza di suoni mi affascinava anche se avevo ancora, negli occhi, l’immagine degli assembramenti umani gesticolanti, le bocche spalancate atteggiate ad urli, le membra contratte nella foga della corsa.
“Ma dove correte?”- mi dicevo -”Non avete ancora capito che gli obiettivi non esistono? Li abbiamo inventati per giustificare la nostra vita, sono un alibi per continuare il percorso verso la morte, per eludere la paura, per accettare l’inganno della natura che ci ha dotato di un’intelligenza esagerata e inutile. Fate come me, fermatevi! Sedetevi sul margine del bosco a farvi illuminare a metà, godetevi il silenzio del nulla che ci aspira!”
Ma tutti passavano oltre scalciandomi, senza capire nemmeno una delle parole che pronunciavo. Mi guardavano come si guarderebbe un pazzo, dapprima increduli, poi beffardi, infine sdegnati per aver concesso attenzione ad un folle dispensatore di prediche.
I pazzi siete voi!
Lo dissi anche al giudice quando mi arrestarono, quando mi chiusero in questa cella e m’isolarono dal mondo. Qui sto ritrovando la quiete, ma vorrei che la smettessero d’interrogarmi, di chiedermi le ragioni, di tormentarmi coi test psicologici.
Per giornate intere aggrediscono la mia mente provocando reazioni che non comprendo neanch’io. Perché mi torturate? Io ho solo bisogno di calma, di silenzio, di ritrovare il mio tempo lento e l’equilibrio che mi era stato sottratto. L’avevo ritrovato e me lo hanno sequestrato, come se possedere la tranquillità sia un reato, ma loro non sanno cos’è.
Cosa devo dire, signor giudice? Lasciatemi in questa prigione, nella mia cella, da solo, io qui sto bene. Sono lontano dalle folle e dai rumori, non ho bisogno d’altro se non del silenzio. Non privatemi della quiete, non condannatemi alla vostra vita inutile.
Dicono che forse ho bisogno di essere curato, che la mia mente non è serena, si dice così dei pazzi, ma io non lo sono. Lui, il giudice, vuole sapere con certezza se dovrò essere rinchiuso o meritare la crudele condanna del ricovero. Uccidetemi, piuttosto!
No, non l’odiavo, credevo d’amarla. Fu questo ad impaurirmi, perché la vidi come un ostacolo da superare e invece volevo fermarmi, riposare insieme a lei.

(continua)



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30/09/2009 22:54
 
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Il silenzio (segue)

Quel pomeriggio ero più stanco del solito. Ci si stanca di più quando il lavoro è imposto dalle consuetudini, dai privilegi che ne derivano e ai quali non si può rinunciare.
A volte penso che sarebbe stata una bella vita quella del mendicante, se solo avessi avuto il coraggio di buttare alle ortiche tutto il mio benessere materiale, conquistato in decenni di fatica. Sarei vissuto solo per godermi l’attesa, senza affannarmi per renderla piacevole, senza subire il ricatto della civiltà che ci ha rubato l’essenza lasciandoci un involucro arido, che siamo costretti a farcire di falsità pur di farlo apparire credibile.
Bruciate le mie ore migliori, avevo cercato il bosco che mi accoglieva paziente da lungo tempo e gli dedicavo ciò che restava della mia giornata, in cambio della calma che sapeva offrirmi.
Immobile come un tronco, bevevo le ultime ore di luce che mi dissetavano più di un buon vino, annegavo nel silenzio liquido che si riversava nelle orecchie, ascoltavo solo il rombo del mio sangue turbolento che ronzava nelle tempie imbiancate.
Intravidi un corpo, era lei, disteso sul muro assolato del fortino, più a valle della mia posizione, immobile e mimetizzato fra le pietre antiche e i rosai selvatici che si arrampicavano infiorando le pareti. Mi meravigliò la sua immagine e restai ad osservarla per lungo tempo durante il quale non si mosse nemmeno d’un centimetro.
Che fosse una donna lo percepii istintivamente, perché mi piacque subito, e continuai a guardarla aspettando un movimento rivelatore ma lei non si mosse.
Indossava dei jeans ed una camicetta chiara, scarpe pesanti da soldato ed un giubbotto di pelle nero, teneva le mani dietro la nuca e sembrava che dormisse, ferma come un arbusto divelto.
Cominciai a preoccuparmi e a sospettare che fosse morta, perciò mi avvicinai scendendo cautamente gli alti gradini che mi separavano dall’antica costruzione. Quando fui a qualche passo da lei si girò impaurita e scattò a sedere sgranando gli occhi.
- Mi scusi - le dissi cercando di esprimere un atteggiamento tranquillizzante - non volevo spaventarla. La osservavo dal bosco e vedendola immobile ho temuto che stesse male.
- Oh... - sospirò portandosi una mano sul petto - no, non sto male. Credo di essermi assopita.
- Ho aspettato almeno un’ora per vederla muovere, mi scusi ancora.
- Non deve scusarsi, anzi, la ringrazio. Un’ora ha detto? Ma che ore sono?
- Non lo so, non ho un orologio, ma a giudicare dal sole... le cinque credo. Sì, non più tardi delle cinque.
- Allora ho dormito davvero. - si stirò platealmente - Se non mi avesse svegliato avrei passato qui la notte; è così coinvolgente questo silenzio.
- Anche lei viene qui per il silenzio?
- Sì, da quando ho trovato questo posto ci vengo almeno una volta la settimana, e mi regalo un pomeriggio di quiete a dispetto di tutti.
- Io, invece, ci vengo più spesso, quasi ogni giorno, e non lo faccio per dispetto, ormai questo posto fa parte della mia vita.
Rise, e mi guardò con maggiore attenzione. Per qualche secondo i nostri sguardi frugarono sul corpo dell’altro per scoprirvi particolari piacevoli, ora che l’impatto della conoscenza era esaudito e la paura dell’incontro si era smorzata nell’armonia del dialogo.
- Però non l’ho mai vista - proseguii - dove si nascondeva?
- Oh, sempre qui fra le rovine, forse era distratto dal paesaggio...
- Anche lei fa parte del paesaggio, avrei volentieri posato gli occhi su di lei.
Sorrise ed abbassò lo sguardo timidamente. Mi guardò di nuovo e dai suoi occhi capii che aveva accolto il mio complimento.
- Mi chiamo Daniela. - disse ciondolando le gambe dal muretto.
- Ed io Pierre. - tesi la mano per stringere la sua - Piacere di conoscerti Daniela.
- Sei francese?
- Sono nato a Parigi, ma sono in Italia da quando ero un bambino, non ricordo più nulla della Francia, tranne il rumore assordante degli aerei, abitavamo vicino all’aeroporto.
- E’ per questo che cerchi il silenzio, per equilibrare tutti i rumori che hai assorbito da piccolo?
- Forse, non ci avevo mai pensato. E tu, invece?
- Io... non sono francese, e da piccola non abitavo vicino all’aeroporto, però anch’io ricordo tanti rumori, ma vengo qui perché ho bisogno di quiete. A volte credo di perdere il mio tempo, perché qualcuno mi costringe ad accelerare e non mi ritrovo più. E’ me stessa che vengo a cercare fra queste rovine.
- Riesci a ritrovarti?
- Sì, sempre, perché non è vero che mi sono perduta, solo non mi riconosco più. A te non succede?
- Qualche tempo fa, quando ancora non avevo capito nulla della vita e correvo, correvo per imitare gli altri. Mi accadeva di smarrire il senso di me e ritrovarlo diventava sempre più difficile, perché si nascondeva in un labirinto dove le pareti erano tutti gli obiettivi virtuali che ci vengono imposti fin da piccoli. Un giorno decisi di fermarmi, mi rifiutai d’inseguire le false mete e il labirinto scomparve e il senso di me, che avevo smarrito, capii che non si era mai allontanato. Ero io che non avevo più occhi per vederlo, né orecchie per ascoltarne i suggerimenti, né volontà di seguirlo, né forza per incatenarlo. Fu difficile recuperare la mia coscienza, e questo posto mi ha aiutato.
Daniela mi aveva ascoltato con attenzione e rimase ancora un attimo a guardarmi in silenzio.
- Bello. - disse.
- Cosa?
- Il tuo racconto. Sai dirle bene le cose.
La guardai compiaciuto, anche lei sapeva fare i complimenti. Restammo a parlare fino al tramonto, commentando i colori e la luminosità del cielo che cambiavano di minuto in minuto e, stranamente, la sua presenza non privò di poesia la sera che si posava sulla campagna planando come un uccello, e le sue parole non interruppero la melodia della quiete che scivolò dal bosco e si sparse sulle rovine.
Quando le nuvole all’orizzonte ingoiarono la lampada accesa, i suoi raggi sfuggirono dalle fessure e segnarono i nostri volti, percorsero i nostri corpi fino alla terra e si dispersero nei solchi, fra le radici dei pini che si aggrappavano come branche di polpi.
Lei era così piccola nello splendore della natura e così vicina a me che mi sembrò di toccarla. Quando sentì la mia mano sfiorare la sua la strinse e mi salutò, col suo sorriso che sembrava un’altra stella scoppiata all’improvviso. Mi diede appuntamento allo stesso giorno della settimana successiva, per parlare ancora di noi, e ridiscese la sua via.

No, ma come fate a dire che l’odiavo, io m’ero innamorato di lei e l’ho uccisa perché l’amavo, le ho donato la quiete che cercava risparmiandole gli anni terribili del futuro. Non ero geloso, lei non aveva altri che me, eravamo così uguali e ci specchiavamo l’uno nell’altro quando stavamo di fronte ad ammirarci.
Io sentivo tutti i suoi pensieri che a volte non sapeva esprimere, l’aiutavo a sopportare quella parte delle sue giornate così inutile e frustrante, la vedevo arrivare a brandelli, trascinare le sue parti con fatica e ci lasciavamo integri e nuovi come fanciulli.
No, non l’ho mai vista altrove, non glielo chiesi e nemmeno lei l’avrebbe voluto, che senso avrebbe avuto trovarci lontano dal bosco e dai muri scalcinati del fortino?
Il nostro amore esisteva solo lì, non ci saremmo riconosciuti nel caos della città.
Pioveva quella notte, e scivolava dalle mie mani che la stringevano.
Non sono pazzo. I pazzi siete voi che continuate a vivere.
I fari della mia piccola prigione illuminavano la ripida discesa, percorrendo a ritroso la collina, ed io pensavo a Daniela, non al silenzio ed alla quiete che avevo assorbito ma a lei che avevo appena conosciuto e già mi rubava i pensieri.
Anche a casa e l’indomani nell’ufficio, mi appariva il suo viso fra le carte mentre cercavo di scacciarlo per lavorare, la pensavo sdraiata sul muretto, indifesa al mio sguardo che la scrutava. I suoi sorrisi mi si erano stampati dentro, ed i suoi occhi timidi e sfuggenti si posavano su di me che le raccontavo la storia, che sarebbe stata anche la sua, della coscienza ritrovata ai margini del bosco.
La sentivo crescermi dentro ed invadermi, arrampicarsi come i rosai selvatici e fiorirmi in testa, pungermi nella mano che aveva stretto d’istinto, al solo sentirla vicino.
L’amavo? Cominciavo a percepirla mia e l’idea mi piaceva, ma non sapevo nulla di lei, se non che soffrisse dello stesso male che non guarisce.
Daniela comparve in cima alla scalinata di ferro che, dalla strada lontana, conduceva i visitatori fino alle rovine, ma nessuno la percorreva più ed era arrugginita e aggredita dai rovi.
Appena mi vide mi salutò con ampi gesti del braccio ed io la raggiunsi.
- Uh..., sto invecchiando, non ce la faccio più. Ciao Pierre.
- Ciao... - le porsi la mano e l’aiutai a superare i tralci spinosi.
Il suo contatto mi diede i brividi, da troppo tempo non provavo l’emozione della mano di una donna, è come quella di un bambino, morbida e piacevolmente umida, e trasmette una scossa elettrica appena percettibile, perciò la tenni nella mia anche quando non ebbe bisogno del mio aiuto. Lei capì, mi sorrise e mi lasciò condurla fino al margine della pineta.
- Cos’hai fatto durante la settimana? Ti sei annoiato?
- Terribilmente, la mattina, ma i pomeriggi li ho trascorsi qui ed ho pensato a te.
- Addirittura... ti sarai annoiato ancora di più. - era felice e stirava i suoi corti capelli per rinfrescarsi le tempie.
- Sai Daniela, per diversi mesi sono stato in questo posto credendo di essere solo ed ora ho scoperto te. Sei stata una rivelazione.
- Oh, s’è per questo anche tu sei stato una rivelazione, ci pensi che avrei potuto conoscerti in banca? o al mercato? o in un ufficio squallido? Di cosa avremmo parlato? del tasso di sconto o del prezzo delle patate? delle tasse, del costo della vita o dei titoli di stato? Che desolazione! Ti avrei dimenticato il minuto successivo.
- E... invece?
- Invece... beh, anch’io ho pensato a te.
- Oh, ti sarai annoiata a morte. - la scimmiottai.
- Allora è vero che ti sei annoiato pensandomi! - si finse indignata, la guardai negli occhi che sorridevano insieme alla sua bocca.
- Ho vissuto un’altra settimana, pensandoti.
Daniela osservava tutto il mio viso, muovendo gli occhi rapidamente da un particolare all’altro.
- Erano almeno dieci anni che nessuno me lo diceva più.
- Se vuoi te lo ripeto. - scherzai.
- Sì, ti prego. - e chiuse gli occhi per concentrarsi solo sulle mie parole.
- Ho pensato a te dal momento che ci siamo lasciati fino a quando ti ho rivista. Dapprima mi hai fatto rabbia, perché mi rubavi tutti i minuti, poi il ricordo di te è diventato piacevole e commovente, e mi sono sentito come un ragazzino alla sua prima cotta.
Le piaceva essere corteggiata, e da me l’accettava volentieri, forse perché le piacevo o perché le circostanze assecondavano lo spingersi un po’ più in là della banale conoscenza, come quando d’estate, sulle spiagge assolate, s’imbastiscono i flirt di un solo giorno.
- ...A questo punto?
- Purtroppo.
- Perché purtroppo?
- Perché... - mi strinsi nelle spalle - non so nulla di te, potrei anche sbagliarmi.
- Ti sei mai sbagliato?
- No, mai!
- E allora?
- Da ragazzino m’innamoravo di una compagna di scuola almeno una volta la settimana, qualche volta mi andava bene e la maggior parte delle volte no. Però non succedeva niente, non ci morivo, da piccoli si è meno indifesi, nonostante possa sembrare il contrario. E tu? ti sei mai sbagliata?
- Quasi sempre. Quando ero convinta che fosse amore, dopo due giorni ero già stanca, ma forse era colpa dei ragazzi, erano così insignificanti. Ma era anche colpa mia, avevo così tanto desiderio d’amare che accettavo la corte del primo belloccio che s’interessava a me. Poi, finite le dolci parole e appagati i sensi, il grande amore svaniva, così com’era cominciato.
- Hai paura dell’amore?
- No, lo cerco ancora, nonostante tutto. E tu?
- Mi fa un po’ paura, credo che una storia d’amore, in questo momento, sconvolgerebbe la mia vita.
- Posso chiederti quanti anni hai?
- Quasi quaranta, nel senso che non ci sono ancora arrivato. E tu?
- Quasi trenta, nel senso che li ho superati da poco.
- Allora siamo ancora nello stesso decennio, sebbene agli estremi.
- A quanto pare sì. Possiamo ancora capirci. Ma fa’ in fretta!
Daniela mi guardava ed aspettava un mio gesto, l’unico possibile, o una parola, che poteva essere solo quella, ma io ero indeciso.
Cosa potevo farmene di un amore adesso che avevo capito tutto?
Avevo ben chiaro il senso, anzi, il nonsenso della mia vita, avevo rinunciato a rincorrere i falsi obiettivi ed aspettavo la morte del mio corpo che avrebbe portato con sé tutti i miei pensieri, e di me, della mia vita inutile sarebbe rimasto un mucchio di cenere, come di tutti gli altri, un mucchio di cenere, nient’altro. Cosa potevo farmene d’un amore?
Eppure l’amavo. Sapevo che nulla serviva di ciò che facevo, nulla che avesse un senso compiuto nell’assurdità della mia esistenza, nemmeno a guardarla da lontano se ne percepiva l’utilità nell’universo. E se anche ci fosse stata una giustificazione alle mie cellule, perché non saperlo? Perché non conoscerla?
Eppure lei entrava in me, piano piano stava entrando nella mia vita. Per renderla piacevole, forse? O per rivelarmi l’ennesima prova dell’errore genetico che mi ha fatto uomo, pur lasciandomi le stesse funzioni delle bestie e delle piante, con in più, condanna crudele, la consapevolezza della propria inutilità?
Io non avrei mai saputo chi sono e lei s’insinuava in me, ma non sapevo nulla di lei, se non che volesse amarmi.
Daniela aveva percepito il mio disagio, probabilmente le sue esperienze erano simili alle mie e capiva le difficoltà che mi trattenevano. Forse anche lei già mi amava, o forse voleva cogliere l’occasione di quell’amore rurale, giunto al margine della sua gioventù per diluirne la sorpresa del distacco.
Quando la sera, senza farsene accorgere, ci tinse di viola, lei si appoggiò alla mia spalla ed io l’abbracciai, sentii la morbidezza del suo corpo adagiarsi sul mio braccio, assorbirlo nei vestiti. Quando si girò trovai la sua bocca così vicina, così vicina che non osai sfuggirla, mentre s’incollava al mio petto la baciai.
Oh dolcezza di quel bacio, dopo cent’anni di arsura. Bevvi dalla sua bocca tutto il bene del mondo mentre il suo cuore batteva forte alla mia porta e le aprii, spalancai la mia imposta serrata e l’accolsi come si riceve il sole prezioso d’inverno, e non mi chiesi nemmeno quanto sarebbe durato il calore che mi offriva, l’avrei preso con gioia anche se fosse stato solo un minuto.

(continua)




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02/10/2009 16:21
 
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Il silenzio (segue)

Che freddo in questa stanza, dove il sole resta affacciato dietro la grata per ricordarmi ch’esiste, lo stesso gelo che mi assalì quella notte quando spensi il suo fuoco e l’adagiai sul muretto.
Abbassai le palpebre sugli specchi che avevano catturato il cielo ed imprigionato anche me sottraendomi la pace che mi spettava.
Era calda e dolcissima anche senza vita, sembrava una brace che si affievolisce a poco a poco proteggendo i tizzoni con la cenere, ed io li cercavo rimestando nel suo corpo immobile, affondavo in lei per l’ultima volta e mi scottavo.
S’inginocchiò fra le mie gambe e continuò a saziarmi con la sorgente che m’inondava, bevve anche lei, la sentii respirare profondamente l’aria pulita che aspirava dai miei polmoni, si riempì gli occhi con la mia immagine che la sovrastava, col mio viso che s’abbassava per divorarla mentre il buio, con uno scatto agile d’assassino, s’era preso la campagna.
- Come farò a lasciarti, adesso? - mormoravano le sue parole smozzicate che ingoiavo o sgattaiolavano attraverso le mie labbra.
- Baciami. - le sussurravo in bocca per nutrirla.
- Devo andare... - ripeteva piagnucolando senza decidersi a farlo.
La sua fretta la riprendeva, come la riprese per tutti i giorni che ci amammo, alla stessa ora, puntualissima, quando la notte l’ammoniva ed il suo mondo che sfuggiva la richiamava.
La luna guidò i suoi passi incerti e la vidi svanire come un fantasma nel vuoto del dirupo, ma ascoltai la sua corsa lungo la scala metallica che si precipitava sulla strada invisibile.
- Martedì, aspettami martedì. - gridò allontanandosi. - Ti amo Pierre.
“Ti amo Pierre” continuò a rimbalzare sulle cortecce alle mie spalle, nelle pieghe della mia scorza che si ammorbidiva inzuppandosi nel suo ricordo, rapiva la mia coscienza, da poco ritrovata, e la concupiva conducendola dentro scenari riciclati.
La pensai come una nemica, dapprima, ladra delle mie percezioni che sentivo plagiate di ora in ora in attesa di quel giorno, lottavo con tutte le mie forze per non farmi prendere al suo laccio, ma forse sapevo fin dall’inizio che avrei ceduto.
Come si può rinunciare al sole?
E il sole era lei, arrivata, mentre morivo intirizzito sul campo innevato, per salvarmi dall’abulia dei miei giorni. O era l’incognito messo del progetto universale, lo sprone occulto che mi avrebbe recuperato alla corsa senza darmi altra spiegazione che l’appagamento dei sensi?
Sulle braccia mi erano rimasti i segni dei suoi fianchi e sul petto i solchi appuntiti del suo seno, stretto nella voglia di avermi, anche solo con un bacio. Cos’ero per lei?
La notte rumorosa mi avvolgeva, percorsa dalle stelle che piombavano al suolo e scoppiavano, la pineta si agitava moribonda schioccando i rami sul prato che ululava come un branco di lupi.
Dov’era il mio silenzio?
No, non so nulla di lei, conosco solo il suo nome che ho ripetuto centinaia di volte durante i nostri amplessi. Daniela veniva a trovarmi tutti i martedì e qualche volta anche il sabato, sapeva che mi avrebbe trovato ad aspettarla ed io ero lì, che attendevo la mia razione di calore. Si gettava a baciarmi con avidità, come se durante la settimana non avesse fatto altro che pensare a noi, ai nostri incontri ch’erano d’una lussuria sfrenata e di una dolcezza infinita, mischiate insieme in una miscela da infarto.
Il suo corpo bellissimo, immune dall’insidia del tempo, illuminava il sottobosco come una fiaccola e abbrustoliva l’erba, infiammava le resine, consumava l’ossigeno risucchiandolo dalla selva di aghi. Io l’amavo perdutamente, amavo i suoi gesti cortesi e le sue carezze, il suo sorriso che mi colpiva al cuore, la sua carne che possedevo ripetutamente e che mi attirava per prosciugarmi.
- Daniela, dimmi che mi ami.
- Pierre, io amo i tuoi pensieri e il tuo corpo, non privarmi degli uni né dell’altro. Mi sento tua quando mi parli come quando mi prendi. Non smettere mai, non smettere mai.
- Ma cosa ti piace di me? - le chiedevo - Voglio saperlo.
- Non lo so, tutto credo. Tu riesci sempre a dare una spiegazione ai sentimenti?
- Ma io lo so perché ti amo.
- Perché, sentiamo.
- Perché sei bianca come il latte, soda come il marmo e duttile come l’argilla - la canzonai mentre improvvisava una lotta per impedirmi di continuare - e il solo pensarti mi fa eccitare. - sillabai scansando le sue mani, l’afferrai per la vita e ci rotolammo sul prato.
- Vigliacco! - mi disse quando riuscii a immobilizzarla afferrandole i polsi.
- Ferma così, ferma così, come sei bella e indifesa qui, sotto di me, voglio prenderti con la forza.
- Oh sì, si accomodi!
- No, fingi di non volere, recita per me.
- No, la prego, la prego non mi violenti. - e scoppiò in un riso incontenibile. Ma quando cominciai a baciarla trattenendo le sue mani e impedendole di abbracciarmi, il gioco prese anche lei e cominciò a divincolarsi. Per un attimo fraintesi e la mollai ma lei mi guardò supplicandomi di continuare, inchiodò le mani nella terra e lasciò che l’aprissi con violenza costringendo il suo corpo ad un orgasmo passivo che l’annientò.
- Fammelo ancora...
- Più tardi...
Si sdraiò su di me.
- E’ così che ti piace prendere le donne?
- E’ così che ti piace farti prendere?
- Anche così.
- Se vuoi posso anche legarti.
- Ooooh, non me lo dire...
- Davvero, la prossima volta porterò una corda e ti legherò ad un albero, anzi, t’immobilizzerò mani e piedi e ti violenterò per ore.
- Oh Dio... giurami che lo farai.
- E se dirai basta non ti ascolterò.

(continua)


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05/10/2009 21:36
 
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Il silenzio (segue)

Non l’avrei ascoltata, nemmeno quando cominciò a pregarmi di slegarla.
- ...basta Pierre, basta, ti prego, Pierre il gioco è finito, Pierre... - Non sentivo più le sue urla quando le strinsi forte la gola e la pioggia le riempiva la bocca. Scivolavo su di lei penetrandola con forza mentre inarcava la schiena per scrollarmi e ad ogni colpo la vedevo sobbalzare, sgusciare dalla mia presa disperatamente, guardarmi atterrita cercando un filo d’aria per sopravvivere.
Non è stato un gioco. Io l’amavo... e l’odiavo quando i pini scalpitavano, quando il sole urlava assordante insieme alle sue risa e la sera diventava una festa di quartiere, le stelle neon colorati, il prato una spiaggia affollata, le fronde insegne luminose che inneggiavano slogan. Aveva preso la mia quiete, l’aveva rubata. Ed ero costretto ad inseguirla.
Perché continuate a tormentarmi? Vi ho già detto che non sapevo nulla di lei, non mi ha mai parlato di un marito, non dicevamo niente della nostra vita né del nostro lavoro, parlavamo solo di noi insieme, dei nostri incontri. Cos’altro poteva importarci?
Lei viveva solo quando stava con me, quando ritrovava il suo tempo che gli altri le sottraevano, ma forse amava anche lui, nell’altra dimensione della sua giornata. Si divideva per gli altri e per sé restava sempre così poco. Quelle briciole di sé io le ho moltiplicate, perciò mi amava.
- Perché non vieni a vivere qui?! - mi diceva nei nostri momenti di dolcezza.
- Ma io vivo già qui, vi trascorro metà delle mie giornate e l’altra metà non conta.
- Potresti allestire una tenda o costruire una baracca, anche dentro il fortino c’è ancora qualche stanza integra.
- Dovrei abbandonare tutto e ancora non ne ho il coraggio.
- Io verrei a trovare il mio eremita e a fare l’amore con lui, ti porterei del cibo, ti curerei. Perché non lo fai?
- Perché ti annoieresti di accudire un barbone, puzzerei, non ti avvicineresti più. Però, se diventassi anche tu una barbona... che ne dici?
- Mi crescerebbe la barba lunga?
- Se non ti radi più, sicuro.
- L’ameresti sempre la tua barbona?
- Forse mi verrebbe a noia.
- Allora non se ne fa niente, restiamo così. Il nostro è un amore rurale part time.
- Quando scade il nostro contratto?
- Quando vuoi. Se ti annoierai non farti trovare ed io capirò, lo stesso farò io se mi annoierò di te. - s’impaurì delle sue stesse parole, mi strinse forte cercando il conforto delle mie braccia.
- Daniela, sei pazza, io ti amo.
- Anch’io ti amo, che stupida che sono.
- Oggi è la giornata delle sciocchezze.
- Non ne diciamo più, baciami.
I suoi baci, avrei rinunciato a tutto tranne che ai suoi baci, erano succosi e aciduli come i corbezzoli che coglievamo dagli arbusti, lenti per farne durare il sapore per minuti interi. Baciare Daniela era succhiare una caramella che libera il suo sapore a poco a poco, e alla fine t’inebria di liquore.
Non mi stancavo mai di baciarla e con le mani la frugavo per liberarle il seno, la denudavo con calma senza sciupare un centimetro della sua pelle.
Poi, tutta la tenerezza dell’approccio si trasformava in brutalità, a Daniela piaceva essere presa con violenza, essere sbattuta con forza, e il contrasto fra il suo corpo dolcissimo e la ferocia del coito mi sconvolgeva. Quando vedevo il suo viso stravolto e il seno strattonato, i suoi fianchi presi e condotti in ritmi assurdi, le sue gambe sollevate e spalancate mentre la spiaccicavo sui tronchi mi commuovevo e, stranamente, la mia eccitazione si moltiplicava, ascoltavo le sue grida, che immaginavo di dolore e la spingevo ancora di più ferendola.
Alla fine era sfinita come se l’avessi bastonata, come se più uomini l’avessero presa contro la sua volontà e violata ripetutamente passandola dall’uno all’altro. La stringevo fra le braccia e la consolavo ritrovando a poco a poco la mia mente che s’era dispersa nell’esaltazione sessuale.
Ma non sempre l’avrei ritrovata.
Gli alberi gridavano insieme a lei, un coro di pini impazziti urlava rabbioso, la luce intermittente dei lampi mi rivelava il biancore del suo corpo vulnerabile incatenato al suolo.
- Pierre, sta per piovere.
- Hai paura della pioggia?
- No, ma ci verrà un malanno.
- Sta per venire a te. Perché adesso ti farò tutto quello che hai sempre temuto, o che hai sempre sognato.
- Sei tu che mi fai paura.
- Non era questo che volevi? Ti farò anche male.
- Spogliati.
- No, ti prenderò così. E non dirmi che ti piace perché non ti crederò.
Le piacque invece, le piacque subito il nostro gioco sadico e cominciò a lamentarsi fin dai primi baci, fingendo di sfuggire la mia lingua che la violava in ogni anfratto.
- Ti piace... lo sento che ti piace.
- No, smettila, non toccarmi, noooo. - ma la sua febbre saliva e bruciava, bruciava come il prato che l’accoglieva.
La pioggia le scrosciò addosso mentre la infilzai come una bestia, mi fermai per sentirla e vidi i suoi occhi spalancati che m’imploravano di non smettere. Il tuono mi spronò e galoppai, galoppai dentro Daniela che sembrava impazzire, sbatteva la testa al suolo e si sollevava per guardare la punizione che le infliggevo.
Nel delirio la mia mano trovò la sua gola e la sentii pulsare, ingoiare tutte le parole che non poteva dire per non guastare la scena orrenda, l’avvolsi con le dita, la presi con l’altra mano e lei mi guardò sorpresa lasciandosi soffocare. Venne così, mentre la stringevo, con la bocca spalancata, le braccia aperte, le gambe divaricate.
Noooo, lasciatemi piangere, non posso pensare ai suoi occhi quando capì che non l’avrei mollata. M’implorò di smettere. Mi chiamò per svegliarmi ma io sentivo solo l’urlo del bosco e vedevo il suo volto cianotico imbiancato a tratti dai lampi, cercò di scivolare dalla mia stretta mortale, inarcò la schiena per liberarsi e mi piacque di più, la spinsi forte quando volle respingermi, la sentii chiudersi e serrare la sua porta divelta, non poteva nulla contro di me ed io la sfondavo. Quanto durò la sua agonia?
La presi ancora ch’era già morta e la sua bocca non gridava più, era immobile e calda, come la brace che si spegne.

Non mi svegliai subito, mi sdraiai accanto al suo corpo e lo accarezzai, nelle orecchie avevo il rombo distruttivo dei tuoni, gli urli esasperati della notte ch’era stata costretta a subire la mia bestialità, il cielo sgranava lentamente e le stelle si lanciavano a colpirmi, la luna s’infiammò improvvisa accecandomi e Daniela era lì, nuda e aperta come un animale sacrificato. Alla mia pazzia?
No, non è vero che sono pazzo, io l’amavo, volevo solo amarla e riprendermi la quiete che mi aveva rubato. Poi mi sarei fermato con lei ad aspettare la morte che, tanto, verrà in ogni caso, l’avremmo accolta insieme. Ma tutto era diventato così rumoroso, così assordante, come se ad ogni visita portasse con sé un po’ del fragore del mondo e lo sostituisse alla mia pace.
L’avrei voluta immobile e calda, silenziosa e dolcissima solo per baciarla, solo la sua bocca socchiusa, succosa come i corbezzoli, da succhiare per ore.
La slegai, massaggiai i suoi polsi e le sue caviglie strappati dalla corda, la rivestii completamente aggiustando il suo seno scomposto, calzai i suoi piccoli piedi, la pettinai con le dita e le asciugai il viso, abbassai le tendine delle sue palpebre sulla volta stellata che aveva catturato, l’adagiai sul muretto, così come l’avevo vista la prima volta, sistemai le sue mani dietro la nuca come se stesse dormendo e me ne andai.
Non la pensai più, non mi apparve fra le carte sulla scrivania, non immaginai di doverla incontrare, solo le sue labbra, morbide e mute, rammentavo a tratti, di una tenerezza impossibile.
La collina rifiutava l’autunno che si prendeva gli orti, la brezza filtrava nei pini verdissimi senza rumore alcuno, alitava sul prato vaporoso posandosi piano sulle radici sporgenti mentre il sole precipitava curvo all’orizzonte. La mia pietra muscosa, fredda ancora come la notte trascorsa, come la notte seguente, non assorbiva luce, non la rifletteva, refrattaria al calore sosteneva l’asse friabilissimo dell’equilibrio, cullava l’altalena dei miei pensieri in bilico fra la luce e l’ombra dello stesso giorno.
Le liane di rovi calavano dalle pareti pietrose, aggredivano i rosai che fiorivano indifferenti imbiancando le nicchie umide, occultando le grate che sbarravano le stanze antiche.
Sul muretto, mimetizzato fra gli arbusti rinsecchiti e le rade viti selvatiche vidi un corpo, era lei immobile e muta che aspettava di consumarsi. La guardai stupito e sembrava morta, la sua bocca spalancata voleva urlare e le mie mani atteggiate a conchiglia protessero le orecchie nel timore di udirla.
La lampada si tuffò nelle nuvole e l’aria s’incendiò, la sera scese dal bosco planando come una civetta e posò il sudario sul mondo.
Io non volevo sentire altro, non un fruscio d’erba, non un ronzio d’insetto, avevo recuperato la quiete, e ritrovato il silenzio.


fine
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06/10/2009 15:53
 
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Ciao Basettun, mi piace commentare il tuo racconto con questa parte del “Il silenzio”:
“Non è stato un gioco… Io l’amavo… e l’odiavo quando i pini scalpitavano, quando il sole urlava assordante insieme alle sue risa e la sera diventava una festa di quartiere, le stelle neon colorati, il prato una spiaggia affollata, le fronde insegne luminose che inneggiavano slogan. Aveva preso la mia quiete, l’aveva rubata. Ed ero costretto ad inseguirla”.
In questo racconto, il paesaggio, e le sue descrizioni minute ed a volte pittoriche, assume un valore morale: il caos e la frenesia della città si contrappongono al silenzio ed alla pace ristoratrice del bosco. Non è un caso che il ritmo della descrizione del paesaggio rallenta proprio quando si tratta di descrivere questo luogo di quiete, rasserenante e curatore come un “rene miracoloso”.
Ma la tragedia incombe su Pierre quando incontra nel bosco Daniela, con la quale pare condividere la ricerca di una quiete fisica e spirituale. La passione nasce inevitabilmente fra i due, ma la donna è insieme “ladra” delle sue percezioni e “sole” delle sue giornate. Una contraddizione latente che s’insinua negli incontri erotici dei due, sempre più appassionati sempre più violenti. Durante uno di questi incontri, quello che sembra apparentemente solo un gioco erotico finito male, Pierre soffoca la donna durante un amplesso, dando quiete così alla donna amata, ma anche riprendendosela per se stesso.
Daniela ha “rotto” il silenzio di Pierre fatto di anni di quotidianità, di consuetudini, di noia per fargli rivivere il sentimento dell’innamoramento. Può sembrare una cosa normale, ma non tutti uccidono una donna che risveglia il sentimento dell’innamoramento, in fondo Pierre non è equilibrato.
Penso che non si è trattato di un gesto di follia, ma della logica conclusione degli investigatori che hanno incastrato il primo poveraccio che è capitato e lui, invece, non c’entra nulla. Vive nella sua fantasia ed ha inventato una storia. Pierre è innocente.

Complimenti Basettun, è fantastico.
Un bacio. Gabri.
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Email Scheda Utente
06/10/2009 20:22
 
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E' vero, Pierre è innocente, ha visto Daniela già morta e l'ha osservata per giorni fantasticando e poi quelle fantasie sono diventate così importanti da crederle vere.
Ma i giudici e i medici gli hanno creduto e lui sta scontando la sua ingiusta pena. Ma in fondo sta bene, era quello che cercava, un rifugio.
Dovrò scrivere il seguito di questo racconto, grazie per l'idea.
[Modificato da basettun 06/10/2009 21:25]
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