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30/09/2009 22:54 | |
Il silenzio (segue)
Quel pomeriggio ero più stanco del solito. Ci si stanca di più quando il lavoro è imposto dalle consuetudini, dai privilegi che ne derivano e ai quali non si può rinunciare.
A volte penso che sarebbe stata una bella vita quella del mendicante, se solo avessi avuto il coraggio di buttare alle ortiche tutto il mio benessere materiale, conquistato in decenni di fatica. Sarei vissuto solo per godermi l’attesa, senza affannarmi per renderla piacevole, senza subire il ricatto della civiltà che ci ha rubato l’essenza lasciandoci un involucro arido, che siamo costretti a farcire di falsità pur di farlo apparire credibile.
Bruciate le mie ore migliori, avevo cercato il bosco che mi accoglieva paziente da lungo tempo e gli dedicavo ciò che restava della mia giornata, in cambio della calma che sapeva offrirmi.
Immobile come un tronco, bevevo le ultime ore di luce che mi dissetavano più di un buon vino, annegavo nel silenzio liquido che si riversava nelle orecchie, ascoltavo solo il rombo del mio sangue turbolento che ronzava nelle tempie imbiancate.
Intravidi un corpo, era lei, disteso sul muro assolato del fortino, più a valle della mia posizione, immobile e mimetizzato fra le pietre antiche e i rosai selvatici che si arrampicavano infiorando le pareti. Mi meravigliò la sua immagine e restai ad osservarla per lungo tempo durante il quale non si mosse nemmeno d’un centimetro.
Che fosse una donna lo percepii istintivamente, perché mi piacque subito, e continuai a guardarla aspettando un movimento rivelatore ma lei non si mosse.
Indossava dei jeans ed una camicetta chiara, scarpe pesanti da soldato ed un giubbotto di pelle nero, teneva le mani dietro la nuca e sembrava che dormisse, ferma come un arbusto divelto.
Cominciai a preoccuparmi e a sospettare che fosse morta, perciò mi avvicinai scendendo cautamente gli alti gradini che mi separavano dall’antica costruzione. Quando fui a qualche passo da lei si girò impaurita e scattò a sedere sgranando gli occhi.
- Mi scusi - le dissi cercando di esprimere un atteggiamento tranquillizzante - non volevo spaventarla. La osservavo dal bosco e vedendola immobile ho temuto che stesse male.
- Oh... - sospirò portandosi una mano sul petto - no, non sto male. Credo di essermi assopita.
- Ho aspettato almeno un’ora per vederla muovere, mi scusi ancora.
- Non deve scusarsi, anzi, la ringrazio. Un’ora ha detto? Ma che ore sono?
- Non lo so, non ho un orologio, ma a giudicare dal sole... le cinque credo. Sì, non più tardi delle cinque.
- Allora ho dormito davvero. - si stirò platealmente - Se non mi avesse svegliato avrei passato qui la notte; è così coinvolgente questo silenzio.
- Anche lei viene qui per il silenzio?
- Sì, da quando ho trovato questo posto ci vengo almeno una volta la settimana, e mi regalo un pomeriggio di quiete a dispetto di tutti.
- Io, invece, ci vengo più spesso, quasi ogni giorno, e non lo faccio per dispetto, ormai questo posto fa parte della mia vita.
Rise, e mi guardò con maggiore attenzione. Per qualche secondo i nostri sguardi frugarono sul corpo dell’altro per scoprirvi particolari piacevoli, ora che l’impatto della conoscenza era esaudito e la paura dell’incontro si era smorzata nell’armonia del dialogo.
- Però non l’ho mai vista - proseguii - dove si nascondeva?
- Oh, sempre qui fra le rovine, forse era distratto dal paesaggio...
- Anche lei fa parte del paesaggio, avrei volentieri posato gli occhi su di lei.
Sorrise ed abbassò lo sguardo timidamente. Mi guardò di nuovo e dai suoi occhi capii che aveva accolto il mio complimento.
- Mi chiamo Daniela. - disse ciondolando le gambe dal muretto.
- Ed io Pierre. - tesi la mano per stringere la sua - Piacere di conoscerti Daniela.
- Sei francese?
- Sono nato a Parigi, ma sono in Italia da quando ero un bambino, non ricordo più nulla della Francia, tranne il rumore assordante degli aerei, abitavamo vicino all’aeroporto.
- E’ per questo che cerchi il silenzio, per equilibrare tutti i rumori che hai assorbito da piccolo?
- Forse, non ci avevo mai pensato. E tu, invece?
- Io... non sono francese, e da piccola non abitavo vicino all’aeroporto, però anch’io ricordo tanti rumori, ma vengo qui perché ho bisogno di quiete. A volte credo di perdere il mio tempo, perché qualcuno mi costringe ad accelerare e non mi ritrovo più. E’ me stessa che vengo a cercare fra queste rovine.
- Riesci a ritrovarti?
- Sì, sempre, perché non è vero che mi sono perduta, solo non mi riconosco più. A te non succede?
- Qualche tempo fa, quando ancora non avevo capito nulla della vita e correvo, correvo per imitare gli altri. Mi accadeva di smarrire il senso di me e ritrovarlo diventava sempre più difficile, perché si nascondeva in un labirinto dove le pareti erano tutti gli obiettivi virtuali che ci vengono imposti fin da piccoli. Un giorno decisi di fermarmi, mi rifiutai d’inseguire le false mete e il labirinto scomparve e il senso di me, che avevo smarrito, capii che non si era mai allontanato. Ero io che non avevo più occhi per vederlo, né orecchie per ascoltarne i suggerimenti, né volontà di seguirlo, né forza per incatenarlo. Fu difficile recuperare la mia coscienza, e questo posto mi ha aiutato.
Daniela mi aveva ascoltato con attenzione e rimase ancora un attimo a guardarmi in silenzio.
- Bello. - disse.
- Cosa?
- Il tuo racconto. Sai dirle bene le cose.
La guardai compiaciuto, anche lei sapeva fare i complimenti. Restammo a parlare fino al tramonto, commentando i colori e la luminosità del cielo che cambiavano di minuto in minuto e, stranamente, la sua presenza non privò di poesia la sera che si posava sulla campagna planando come un uccello, e le sue parole non interruppero la melodia della quiete che scivolò dal bosco e si sparse sulle rovine.
Quando le nuvole all’orizzonte ingoiarono la lampada accesa, i suoi raggi sfuggirono dalle fessure e segnarono i nostri volti, percorsero i nostri corpi fino alla terra e si dispersero nei solchi, fra le radici dei pini che si aggrappavano come branche di polpi.
Lei era così piccola nello splendore della natura e così vicina a me che mi sembrò di toccarla. Quando sentì la mia mano sfiorare la sua la strinse e mi salutò, col suo sorriso che sembrava un’altra stella scoppiata all’improvviso. Mi diede appuntamento allo stesso giorno della settimana successiva, per parlare ancora di noi, e ridiscese la sua via.
No, ma come fate a dire che l’odiavo, io m’ero innamorato di lei e l’ho uccisa perché l’amavo, le ho donato la quiete che cercava risparmiandole gli anni terribili del futuro. Non ero geloso, lei non aveva altri che me, eravamo così uguali e ci specchiavamo l’uno nell’altro quando stavamo di fronte ad ammirarci.
Io sentivo tutti i suoi pensieri che a volte non sapeva esprimere, l’aiutavo a sopportare quella parte delle sue giornate così inutile e frustrante, la vedevo arrivare a brandelli, trascinare le sue parti con fatica e ci lasciavamo integri e nuovi come fanciulli.
No, non l’ho mai vista altrove, non glielo chiesi e nemmeno lei l’avrebbe voluto, che senso avrebbe avuto trovarci lontano dal bosco e dai muri scalcinati del fortino?
Il nostro amore esisteva solo lì, non ci saremmo riconosciuti nel caos della città.
Pioveva quella notte, e scivolava dalle mie mani che la stringevano.
Non sono pazzo. I pazzi siete voi che continuate a vivere.
I fari della mia piccola prigione illuminavano la ripida discesa, percorrendo a ritroso la collina, ed io pensavo a Daniela, non al silenzio ed alla quiete che avevo assorbito ma a lei che avevo appena conosciuto e già mi rubava i pensieri.
Anche a casa e l’indomani nell’ufficio, mi appariva il suo viso fra le carte mentre cercavo di scacciarlo per lavorare, la pensavo sdraiata sul muretto, indifesa al mio sguardo che la scrutava. I suoi sorrisi mi si erano stampati dentro, ed i suoi occhi timidi e sfuggenti si posavano su di me che le raccontavo la storia, che sarebbe stata anche la sua, della coscienza ritrovata ai margini del bosco.
La sentivo crescermi dentro ed invadermi, arrampicarsi come i rosai selvatici e fiorirmi in testa, pungermi nella mano che aveva stretto d’istinto, al solo sentirla vicino.
L’amavo? Cominciavo a percepirla mia e l’idea mi piaceva, ma non sapevo nulla di lei, se non che soffrisse dello stesso male che non guarisce.
Daniela comparve in cima alla scalinata di ferro che, dalla strada lontana, conduceva i visitatori fino alle rovine, ma nessuno la percorreva più ed era arrugginita e aggredita dai rovi.
Appena mi vide mi salutò con ampi gesti del braccio ed io la raggiunsi.
- Uh..., sto invecchiando, non ce la faccio più. Ciao Pierre.
- Ciao... - le porsi la mano e l’aiutai a superare i tralci spinosi.
Il suo contatto mi diede i brividi, da troppo tempo non provavo l’emozione della mano di una donna, è come quella di un bambino, morbida e piacevolmente umida, e trasmette una scossa elettrica appena percettibile, perciò la tenni nella mia anche quando non ebbe bisogno del mio aiuto. Lei capì, mi sorrise e mi lasciò condurla fino al margine della pineta.
- Cos’hai fatto durante la settimana? Ti sei annoiato?
- Terribilmente, la mattina, ma i pomeriggi li ho trascorsi qui ed ho pensato a te.
- Addirittura... ti sarai annoiato ancora di più. - era felice e stirava i suoi corti capelli per rinfrescarsi le tempie.
- Sai Daniela, per diversi mesi sono stato in questo posto credendo di essere solo ed ora ho scoperto te. Sei stata una rivelazione.
- Oh, s’è per questo anche tu sei stato una rivelazione, ci pensi che avrei potuto conoscerti in banca? o al mercato? o in un ufficio squallido? Di cosa avremmo parlato? del tasso di sconto o del prezzo delle patate? delle tasse, del costo della vita o dei titoli di stato? Che desolazione! Ti avrei dimenticato il minuto successivo.
- E... invece?
- Invece... beh, anch’io ho pensato a te.
- Oh, ti sarai annoiata a morte. - la scimmiottai.
- Allora è vero che ti sei annoiato pensandomi! - si finse indignata, la guardai negli occhi che sorridevano insieme alla sua bocca.
- Ho vissuto un’altra settimana, pensandoti.
Daniela osservava tutto il mio viso, muovendo gli occhi rapidamente da un particolare all’altro.
- Erano almeno dieci anni che nessuno me lo diceva più.
- Se vuoi te lo ripeto. - scherzai.
- Sì, ti prego. - e chiuse gli occhi per concentrarsi solo sulle mie parole.
- Ho pensato a te dal momento che ci siamo lasciati fino a quando ti ho rivista. Dapprima mi hai fatto rabbia, perché mi rubavi tutti i minuti, poi il ricordo di te è diventato piacevole e commovente, e mi sono sentito come un ragazzino alla sua prima cotta.
Le piaceva essere corteggiata, e da me l’accettava volentieri, forse perché le piacevo o perché le circostanze assecondavano lo spingersi un po’ più in là della banale conoscenza, come quando d’estate, sulle spiagge assolate, s’imbastiscono i flirt di un solo giorno.
- ...A questo punto?
- Purtroppo.
- Perché purtroppo?
- Perché... - mi strinsi nelle spalle - non so nulla di te, potrei anche sbagliarmi.
- Ti sei mai sbagliato?
- No, mai!
- E allora?
- Da ragazzino m’innamoravo di una compagna di scuola almeno una volta la settimana, qualche volta mi andava bene e la maggior parte delle volte no. Però non succedeva niente, non ci morivo, da piccoli si è meno indifesi, nonostante possa sembrare il contrario. E tu? ti sei mai sbagliata?
- Quasi sempre. Quando ero convinta che fosse amore, dopo due giorni ero già stanca, ma forse era colpa dei ragazzi, erano così insignificanti. Ma era anche colpa mia, avevo così tanto desiderio d’amare che accettavo la corte del primo belloccio che s’interessava a me. Poi, finite le dolci parole e appagati i sensi, il grande amore svaniva, così com’era cominciato.
- Hai paura dell’amore?
- No, lo cerco ancora, nonostante tutto. E tu?
- Mi fa un po’ paura, credo che una storia d’amore, in questo momento, sconvolgerebbe la mia vita.
- Posso chiederti quanti anni hai?
- Quasi quaranta, nel senso che non ci sono ancora arrivato. E tu?
- Quasi trenta, nel senso che li ho superati da poco.
- Allora siamo ancora nello stesso decennio, sebbene agli estremi.
- A quanto pare sì. Possiamo ancora capirci. Ma fa’ in fretta!
Daniela mi guardava ed aspettava un mio gesto, l’unico possibile, o una parola, che poteva essere solo quella, ma io ero indeciso.
Cosa potevo farmene di un amore adesso che avevo capito tutto?
Avevo ben chiaro il senso, anzi, il nonsenso della mia vita, avevo rinunciato a rincorrere i falsi obiettivi ed aspettavo la morte del mio corpo che avrebbe portato con sé tutti i miei pensieri, e di me, della mia vita inutile sarebbe rimasto un mucchio di cenere, come di tutti gli altri, un mucchio di cenere, nient’altro. Cosa potevo farmene d’un amore?
Eppure l’amavo. Sapevo che nulla serviva di ciò che facevo, nulla che avesse un senso compiuto nell’assurdità della mia esistenza, nemmeno a guardarla da lontano se ne percepiva l’utilità nell’universo. E se anche ci fosse stata una giustificazione alle mie cellule, perché non saperlo? Perché non conoscerla?
Eppure lei entrava in me, piano piano stava entrando nella mia vita. Per renderla piacevole, forse? O per rivelarmi l’ennesima prova dell’errore genetico che mi ha fatto uomo, pur lasciandomi le stesse funzioni delle bestie e delle piante, con in più, condanna crudele, la consapevolezza della propria inutilità?
Io non avrei mai saputo chi sono e lei s’insinuava in me, ma non sapevo nulla di lei, se non che volesse amarmi.
Daniela aveva percepito il mio disagio, probabilmente le sue esperienze erano simili alle mie e capiva le difficoltà che mi trattenevano. Forse anche lei già mi amava, o forse voleva cogliere l’occasione di quell’amore rurale, giunto al margine della sua gioventù per diluirne la sorpresa del distacco.
Quando la sera, senza farsene accorgere, ci tinse di viola, lei si appoggiò alla mia spalla ed io l’abbracciai, sentii la morbidezza del suo corpo adagiarsi sul mio braccio, assorbirlo nei vestiti. Quando si girò trovai la sua bocca così vicina, così vicina che non osai sfuggirla, mentre s’incollava al mio petto la baciai.
Oh dolcezza di quel bacio, dopo cent’anni di arsura. Bevvi dalla sua bocca tutto il bene del mondo mentre il suo cuore batteva forte alla mia porta e le aprii, spalancai la mia imposta serrata e l’accolsi come si riceve il sole prezioso d’inverno, e non mi chiesi nemmeno quanto sarebbe durato il calore che mi offriva, l’avrei preso con gioia anche se fosse stato solo un minuto.
(continua)
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