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L'uragano

Ultimo Aggiornamento: 24/07/2009 23:25
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24/07/2009 23:25
 
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L'uragano - parte quinta
Le migliori qualità di Laura sono la calma e la tranquillità.
Penso sempre di essere stato fortunato ad incontrarla e certamente non avrebbe meritato un tradimento talmente squallido. Ma le cose sono andate così e non posso farci nulla.
Durante la relazione tra me e Lucrezia mi ero proposto di interrompere la nostra convivenza, ma non perché sentivo la necessità di allontanarmi da lei, anzi, averla accanto mi faceva stare meglio in quanto la sua presenza smorzava il mio senso di colpa, ma solo per non privarla ulteriormente della dignità che le rubavamo. Se non l'ho fatto, è perché sapevo che ne sarebbe morta. Mai avrebbe accettato la mia confessione e, tanto meno, quella della sua amata sorellina.
Laura è stata il mio rifugio durante la tempesta, dove andavo a nascondermi per riprendere fiato, la mia salvezza dai fulmini che mi avrebbero incenerito. E tutt'oggi è la mia casa, pronta a consolare ogni mio cruccio, disposta sempre ad abbracciarmi pur senza conoscermi, felice solo di avermi con sé, o di dividermi con le altre nella sua fantasia.
Lei non lo sa che le fantasie, prima o poi, diventano realtà. Perché vive nella realtà oggettiva, quella tangibile della quotidianità, banale se vogliamo ma sicura e concreta come le sue ore, le sue giornate, i suoi anni.
Laura rappresenta la parte calma di me, che tengo fuori dalle mie escursioni pericolose, ma abbastanza vicino da recuperarla in fretta in caso di bisogno o di paura. Come una chiocciola porta il suo guscio, io porto il mio rifugio che mi protegge.
Ora che la storia con Lucrezia è finita, potrei esaminare gli avvenimenti con senso critico svincolato dalle passioni estemporanee e capire cos'è accaduto, ma è proprio la serenità che mi manca e mi accorgo, con terrore, che Lucrezia ha lasciato un vuoto che sarà difficile colmare. Ed è un vuoto diverso, né migliore né peggiore, di quello che lascerebbe Laura se decidesse di andarsene.
La mia paura nasce da questa consapevolezza che annulla a priori ogni possibile futura serenità interiore, che spazza categoricamente qualsiasi eventuale rassegnazione. Eppure so di non amarla, o di non amarla più, però la penso e penso a tutte le ore che abbiamo trascorso insieme.
O penso allo sconvolgimento ch'è avvenuto nella mia vita, nella nostra vita, che, senza l'uno o l'altra, non sarà più possibile o non sarà vita.
Mi sono imposto, gliel'ho promesso, che non avremmo mai più parlato di ciò ch'è avvenuto, come se non parlandone potremo cancellare i peccati commessi. Ma restano tutti lì, davanti ai nostri occhi, so che anche per lei è così, e li percorriamo ogni giorno con la voglia di commetterli ancora.
A volte ho la tentazione di chiamarla e chiederle di rivederci (chissà se anche lei lo vorrebbe?), ma ogni volta che compongo il suo numero chiudo prima che lei risponda. Come potrei dirle? Forse devo aspettare che sia lei a cercarmi, e se non lo farà? Forse per lei è stato davvero un gioco, bello finché è durato ma passato come tutti i giochi. Ma se fosse così ne avremmo parlato serenamente.
Invece mi ha detto solo:
- Non devo vederti più! - e non mi ha più cercato. Ed io, che avrei dovuto risponderle:
- Perché, cosa c'è che non va? - le ho detto stupidamente:
- Se pensi che sia meglio così, non ci vedremo più. - e l'ho lasciata andare per sempre.
Entrambi abbiamo voluto recitare, fino in fondo, la parte dei duri e siamo rimasti beffati dalle nostre stesse recitazioni. Abbiamo voluto credere ch'era solo un gioco e invece era amore, abbiamo giocato col sesso per non confessarci ch'era amore, e abbiamo creduto che mettendo in gioco i nostri corpi avremmo potuto eludere il sentimento che ci aveva preso. Ma è stato davvero così?
Quanti dubbi. E se, invece, tutti questi dubbi fossero solo miei e lei fosse tranquilla per aver vissuto la sua storia proibita senza altre complicazioni? Dovrebbe essere di un cinismo impossibile, di una cattiveria che non le riconosco, no, Lucrezia non è così.
E se avesse pensato di trattarmi come uno dei suoi ragazzini? Se il suo istinto di "mantide" avesse prevalso sia sul sentimento che sull'eros? E se il suo senso erotico si appagasse di questa vittoria? Della certezza di avermi fatto innamorare e di essere entrata nella mia vita per sempre? E se il sesso fosse stato solo la chiave per intrufolarsi nei miei pensieri?
Devo sapere, devo sapere cos'è stato. Forse farei meglio a scriverle, a chiederle di spiegarci, ma farei la figura del bambino. E se lei pensasse la stessa cosa?

Nulla avrebbe fatto immaginare ciò ch'è accaduto. La giornata era tersa e calda, una di quelle giornate di ottobre che invitano alla pigrizia, a sdraiarsi sotto un albero per godersi la brezza autunnale non ancora fredda.
Le nuvole all'orizzonte erano chiare e montate come enormi coni gelato, il cielo azzurro si stagliava nettissimo, perimetrato dal disegno delle case che lo staccavano a forza dai colori spenti della città.
Da qualche giorno trascorrevo troppe ore nello studio e ne uscivo solo per brevissimi minuti; quando intravidi la macchia del cielo, spennellata sulla finestra aperta, avrei voluto aggiungervi una porzione di giallo, a tanto arrivava la mia presunzione, ma aspettavo Lucrezia ed ero preoccupato per lei.
La sera precedente mi aveva tenuto a lungo al telefono per confidarmi il suo malessere che non riusciva a spiegarsi. Ciò che la tormentava erano le ore che trascorrevano fuori del nostro gioco, la vita a computer spento, le notti che lei passava da sola nel suo letto ed io, doppiamente traditore, dedicavo a Laura.
Percepii la sua gelosia che cominciava a farsi strada nel dedalo dei sensi di colpa angoscianti, capii che il suo egoismo iniziava a smantellare le sovrastrutture affettive, a diradare i malesseri che nascevano dalla giustificazione di una familiarità accidentale. Nella sua mente, annebbiata dalla passione, Laura stava per svestire gli abiti della sorella per indossare quelli odiosi della rivale.
Questi disagi di Lucrezia non ebbero il tempo di concretizzarsi in azioni che sarebbero state distruttive, lei lo capì in tempo per sottrarsi ad ogni istigazione, per decidere la soluzione più razionale prima del disastro totale. Troncò, con un taglio netto, la nostra relazione e riconobbe alla sorella il diritto di avermi.
Quanto questa decisione fu giusta non posso dirlo e non so dire quanto lo sarebbe stata una totalmente opposta. Forse, se fossi rimasto con Lucrezia, oggi rimpiangerei Laura.
E, invece, rimpiango lei che m'ha lasciato in bocca il sapore della sua pelle e nella mente il gusto antico, e ormai sbiadito, della mia gioventù perduta, barattata con la dubbia saggezza delle rinunce, coi sacrifici della carne, con l'assurdità delle morali.
In nome di quale crescita? di quale maturità? di quale riscatto intellettuale?
E se cedessi, al senso animale che mi perseguita? E se distruggessi tutto, per dirottare il treno che prosegue incurante dei miei mali? Se cercassi un altro uragano che mi annienti?
Quando Lucrezia spalancò la porta del mio studio, il sole, che aspettava e spingeva, si catapultò su di me, m'invase con la sua prepotenza di padrone, accese i colori dei miei quadri sconvolgendo le ombre e i toni soffusi, s'impossessò della mia stanza come se fosse stata sua.
Lei mi gettò le braccia al collo e mi baciò, con uno dei suoi baci timidi e repressi, legando la sua lingua in fondo alla gola.
La sentii tremante e più disposta a cedere alla lussuria estrema.
Forse fu questo che m'impaurì. Ed impaurì anche lei. Perciò decidemmo di uscire e non accendemmo nemmeno il computer.
Non so chi guidò la mia auto fino a raggiungere i monti, scegliemmo un bosco di castagni sul crinale della montagna a precipizio.
La presi per mano e scendemmo fino al torrente. Sulla sponda opposta, il prato c'invitava e fu lì che ci sdraiammo. L'abbracciai.
La tenni stretta fra le mie braccia mentre lei si arrotolava come un gatto e si faceva accarezzare.
- Luca, tu come stai?
- Non lo so, ma non ci pensare, finché ti ho fra le braccia va tutto bene.
- Io non sto bene. Temo che tutto questo possa finire, debba finire. Mi capisci? Questo non è più un gioco. E' la realtà, e la realtà mi fa paura.
- No, non temere, questa è solo la nostra fantasia, l'abbiamo fatta diventare reale. Hai visto ch'è possibile?
- Ma ora ci prenderà, ci condurrà. Non siamo più i padroni.
- No, Lucrezia, siamo sempre i padroni, la realtà si può cambiare in qualsiasi momento. Basta non dimenticare che i padroni siamo noi.
- Ieri una mia amica è stata ricoverata in ospedale, le hanno detto che ha un brutto male e che forse morirà. Come si può cambiare questa realtà?
- Può scegliere quando e come morire. Dille di uccidersi!
Lucrezia rabbrividì, si svincolò dalle mie braccia e mi guardò stupita.
- Tu... tu sei pazzo! Come fai a dire una cosa simile?
- E tu, come fai a non dirla? - la ripresi e la strinsi forte sul mio petto. - Sì, siamo davvero pazzi solo se subiamo tutto ciò che la natura c'impone.
Ricordi cosa mi dicesti? Della tua vita che vorresti contrarre in un minuto, così da poter vedere la tua nascita e la tua morte con un solo sguardo? Decidere il momento e le circostanze della nostra morte, questo è l'affronto più grave che si possa fare alla realtà. Ma è il regalo più bello che possiamo fare alla nostra fantasia. Pensaci. Non è così?
- Forse, ma ci vuole un bel coraggio per togliersi la vita.
- Il coraggio non esiste. Il coraggio è solo la paura di aver paura. Noi viviamo di paure. E trasciniamo la nostra vita, anche quando non serve più, per paura della morte. Bisognerebbe trovare la forza di morire a quarant'anni.
- Già, e perché non a trenta, o a venti?
- No, a venti no, tu sei bellissima e sei qui con me. Finché ti amo sono salvo. Ma tu, mi ami?
- Sì, cavolo, ti amo, anche a computer spento, anche fuori del nostro gioco. Mi hai preso, canaglia, che sarà di me?
Si sollevò in ginocchio, mi teneva le mani e rideva mentre continuava a dirmi:
- Ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, cavolo!
- Spogliati! - le dissi con tutta la serietà che mi consentiva quel momento, interrompendo bruscamente il suo torrente di "ti amo".
- Qui?
- Qui.
- Sei pazzo.
- Perché?
- Potrebbe vedermi qualcuno.
- Chiunque fosse, non subirebbe una brutta visione.
Sorrideva incredula mentre le sfilavo la maglietta. Le abbassai la gonna e lei mi aiutò facendo una mezza capriola sull'erba, poi tornò a inginocchiarsi davanti a me, si guardò intorno preoccupata e già vedevo nei suoi occhi la febbre che l'invadeva. Mi offrì il gancio del reggiseno che riuscii a scassinare al primo tentativo, si sedette e mi appoggiò le gambe sulle spalle.
Ero tentato di baciarla, di accarezzarla, ma non la toccai. Con due dita trascinai le mutandine e liberai le sue gambe. Lucrezia restò così, con le gambe spalancate, mentre aspettava i miei baci.
Mi alzai, le porsi una mano.
- Alzati. - si appese al mio braccio e si sollevò. - Vieni- le dissi - facciamo una passeggiata.
- Così? - si finse indignata, ma ormai era presa dal gioco. - E se ci vede qualcuno, cosa gli diciamo?
- Che sei più bella degli alberi, del torrente e del cielo, ed è un peccato coprirti. Chiunque sarà d'accordo.
Mi guardava affascinata mentre la conducevo ai margini del bosco, tenendola per mano.
La sua pelle bianca, sulla quale il solepadrone scivolava accarezzandola, assorbiva tutti i colori della campagna circostante e li rifletteva, il cielo si adagiava sulle sue susine acerbe, il prato colorava di verde le sue cosce e si beava sotto i suoi passi.
- Allarga le gambe su quel fiore, vivrà qualche giorno di più.
Lucrezia mi ubbidì, s'abbassò e sfiorò il fiore col suo. Rabbrividì a quel contatto come se si fosse offerta alla carezza di uno sconosciuto.
- Vieni, anche gli alberi ti vogliono toccare.
Si offrì ai giovani castagni, indugiando col suo corpo sui loro tronchi lisci. L'avevo lasciata, e lei proseguiva il nostro gioco ubriaca di voluttà. La vidi avvicinarsi a un tronco ruvido, accarezzarlo con le dita tremanti, mi accostai alle sue spalle e l'accarezzai a mia volta, poi la spinsi e la sigillai sul tronco.
- Abbraccialo. - le dissi, e lei lo avvolse. Le strofinai il seno sulla corteccia rugosa mentre la spingevo con tutto il mio corpo e sfregavo, con le dita, il suo clitoride.
Lucrezia ansimava, assecondava la mia mano coi movimenti ritmati del bacino, pronunciava brevi lamenti, per il piacere che le procuravo e per il dolore che le causava la corteccia ruvida dell'albero. Ma era un dolore che accoglieva volentieri, il suo piccolo seno, abraso e arrossato, fremeva e lei stessa lo guidava per torturarlo di più. Quando venne sulla mia mano, anch'io, pomiciando sulle sue natiche, stavo per raggiungerla come un ragazzino. Sarebbe stata la prima volta, ma era destino che io non dovessi.

Uno scoppio assordante, proprio sopra di noi, scosse le fronde provocando il distacco di molte foglie arrugginite e di qualche riccio spinoso che punse la mia amante facendola sobbalzare. Esaurito il piacere, anche il dolore diventava reale e fastidioso.
Totalmente rapiti, non ci eravamo accorti che i nuvoloni, neri e carichi di pioggia, in agguato dietro la cima del monte, avevano cancellato l'azzurro ed oscurato il sole. I tuoni si susseguirono violenti e le saette, bassissime, si precipitarono al suolo provocando ampi solchi.
L'afferrai e la trascinai, di corsa, a recuperare i suoi vestiti.
- Luca, ma che succede? - gridava impaurita.
- Corri, ho idea che sarà più brutto di quanto sembri.
Ricordai una capanna di pastori a qualche centinaio di metri da quel luogo, mentre le vasche del cielo si aprivano e l'acqua, di una violenza inaudita, si abbatteva su di noi piegandoci. La coprii con la mia giacca e l'aiutai nella corsa. Lucrezia, terrorizzata, si stringeva a me, la guardai ed era ancora bellissima, lavata come un passerotto sperduto e con gli occhi sbarrati.
La capanna era aperta, la spinsi dentro e serrai la porta di tavole.
Ora, la grandine, a chicchi grossi come noci, prese a percuotere il tetto di zinco producendo un rumore continuo e frastornante. Lucrezia, percepito il pericolo che avevamo corso, si rannicchiò disperata in un angolo della stanza buia e si tappò le orecchie.
Cercai di consolarla e le strofinai la testa ed il corpo con una coperta che recuperai dal pagliericcio.
- Ora accendo il fuoco. Non aver paura, queste capanne i pastori le fanno apposta per ripararsi dai temporali. - dovevo quasi gridare per superare il frastuono della grandinata che sembrava voler sfondare il tetto.
Ma non era un temporale, il vento cominciò a soffiare prima continuo, poi a raffiche sempre più violente, poi a spintoni sembrò sradicare la baracca dalle grosse travi che la reggevano. Uno scossone mandò in briciole il vetro della minuscola finestra e Lucrezia urlò. Chiusi gli sportelli, forzando la rabbia dell'uragano che voleva prenderci. Misi insieme un po' di legna, accatastata in un angolo e provai ad accenderla nel caminetto di pietra.
Non fu un'impresa facile perché il vento, che s'insinuava attraverso le tavole delle pareti e sotto le lamiere, spegneva il mio accendino. Poi trovai una lampada a petrolio, versai del liquido sui rami e provocai le fiamme abbrustolendomi la mano. Il fuoco fu come un caro amico accorso a salvarci.
Nel trambusto avevo perso di vista Lucrezia, mi girai e me la trovai accanto, attirata dal calore che si propagò subito. La liberai della coperta e massaggiai il suo corpo gelido.
Sulla mensola accanto alla porta trovai una bottiglia, era vino rosso, forte e provvidenziale. Ne bevvi un lungo sorso e lo trovai ottimo.
- Bevi! - le dissi porgendole la bottiglia.
- Quando finirà? - mi chiese.
- Presto, ma intanto riscaldiamoci, abbiamo preso tanta acqua. - Anche se cercavo di tranquillizzarla, ero preoccupato per il vento e speravo che il pastore avesse lavorato con criterio nel costruire il rifugio. Se il tetto avesse ceduto eravamo perduti.
Fu una fortuna non perire nell'uragano? Non so, forse sarebbe stato un bel finale, per la nostra storia, se i nostri corpi non fossero stati più ritrovati, se il torrente in piena ci avesse travolti davvero e frantumati come frantumò gli alberi del nostro ultimo amplesso.
Ancora non lo sapevo ma, da lì a qualche ora, la mia "ragazzina" mi avrebbe salutato per l'ultima volta, concedendomi, con fredda determinazione, un altro bacio, ancora una carezza, l'ultimo dei suoi indimenticabili "ti amo". Se l'avessi sospettato, avrei venduto i nostri corpi all'uragano, in cambio della serenità che non ho più.
Se avessi saputo ascoltare le sue parole, pronunciate d'un fiato guardandomi dritto negli occhi, come se stesse giocando a spogliarsi, le avrei chiesto di restare, forse. Ma Lucrezia fu coerente con quello che mi aveva promesso all'inizio della nostra storia, "se non ce la farò, mi tirerò indietro", e lo ha fatto, semplicemente.
Che stupido sono, allora, a cercare risposte che non esistono; la spiegazione è la fine del gioco, cominciato e finito com'era previsto nel nostro programma, niente di più. Ma nonostante ogni trama fantastica fomentata dalla nostra presunzione, la realtà s'è appropriata del sogno e l'ha sconvolto, riducendo anche noi a macerie informi, costretti a contemplarci.
Quando l'uragano finì, così improvviso com'era cominciato, il sole si riappropriò del monte, ma il monte non era più lo stesso. Lucrezia ed io ci guardammo e nei nostri stessi occhi si specchiò lo scompiglio della natura.
Il bosco era stato trascinato a valle insieme al fango che prima era terra, il torrente, giallo e impetuoso, si era moltiplicato rubando il prato e spingeva i tronchi accatastati che si aggrappavano l'uno all'altro in una disperata resistenza alla fine. Voltandoci, il nostro rifugio ci apparve squassato, miracolosamente sopravvissuto s'una lingua di terra circondata dall'acqua e dai detriti.
Non c'era segno di vita, se non nel frastuono del fiume che continuava a distruggere.

fine

è un racconto di basettun, tratto dal volume "Lento, violento amare"

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