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Il corpo - un racconto di basettun dedicato a Roberto, ricoverato presso il reparto di psichiatria dell'ospedale di T.

Ultimo Aggiornamento: 09/05/2010 21:52
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30/04/2010 23:49
 
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Il corpo


Era un grumo d’argilla raffazzonato senza garbo e tenuto su con stecche di recupero. Alcune erano fascette di legno fragile sagomate come cornicette da parati, altre ritagliate dalle bottiglie di plastica, altre ancora erano così grossolane da sovrastare con la loro volgarità ogni ispirazione di grazia. Era una di quelle sculture d’arte povera che trovi pure alla Biennale, un gioco di bambino si potrebbe dire, o un passatempo di demente, o meglio ancora la prepotenza di chi vorrebbe far credere che lo stile e la tecnica siano concetti che devono essere superati e sostituiti dall’improvvisazione, disarmonica ad ogni costo per scatenare il disgusto nell’osservatore. Nemmeno il jazz aveva mai osato tanto.
Le molecole di terra mischiate malamente con l’acqua avevano afferrato bolle d’aria che col tempo erano esplose dando origine a crepe e crateri, le stecche cedevano alla contrizione della materia consapevole del suo stato che pentita si rannicchiava negli angoli della coscienza, scattavano come molle e ricadevano sul piano d’appoggio o si reggevano a malapena con le schegge dei tagli maldestri. I fari d’illuminazione fondevano la plastica che si arrotolava ed eseguiva il suo piano di sopravvivenza concordato con gli atomi mentre l’artista gioiva nel vedere la sua creatura viva disfarsi nel breve tempo dell’esposizione.
Trasformarsi, diceva lui, evolversi da opera messa insieme dall’uomo a mucchio di elementi che si scatenano dalla presunzione umana e si legano e si slegano rispettando solo le leggi antiche della natura.
Più in là, in una stanza da imboccare col respiratore c’era un bue morto da almeno due mesi appeso per il muso, anche lì la natura si riprendeva il suo martoriando quelle carni decomposte per metà sul pavimento lucidato a specchio, dove l’artista senza mascherina e completamente nudo aspirava il fetore e sembrava godere ad ogni respiro. La vita e la morte era il titolo dell’opera, ma la morte sembrava vivere una sua vita sconosciuta che giorno dopo giorno si trasformava in altre migliaia di vite, prima in batteri, poi in larve, poi in insetti, e poi in lombrichi che si nutrivano di quell’ammasso puzzolente, e nessuno ce l’aveva messi, nascevano da soli dagli organi putrefatti come se fossero stati sempre contenuti nel bue quando galoppava sui prati. E lui, l’artista, sembrava galoppare verso quel traguardo con tutta la pelle al suo posto e gli arti, gli organi, il cervello attivo che si chiama mente e forse mente davvero perché ti fa credere vivo e invece sei già morto, invecchi giorno dopo giorno e ti decomponi senza saperlo. La morte e la morte doveva essere il titolo dell’opera.
Ma io non potevo esprimere a voce alta la mia critica e rimuginavo tra me e me borbottando, a volte rivolto a una platea virtuale ch’era nella mia mente e beveva la mia lezione come se fossi stato un professore all’università.
Un professore obsoleto, forse, uno di quelli che gli allievi giudicano un tirannosauro sopravvissuto all’estinzione ma che regge il gran peso d’una Cattedra insigne. O era così che preferivo apparire a me stesso ora che la via non prevedeva più svolte al culmine della maturità e nessuna pratica audace sarebbe stata ormai credibile, dovevo aver trovato la strada maestra che fosse vero o no e perseguirla fino in fondo. La saggezza, credevo, è una secchiata di colore che a un punto avanzato del percorso ti tinge all’improvviso senza che tu abbia il tempo di scansarla e ti coglie impreparato se non l’hai costruita con metodo, ma quando sei tinto devi consolidare le tue convinzioni in quel preciso istante congelandone le evoluzioni ancora possibili.
Trent’anni prima mi ero scontrato con un’automobile piena zeppa di panini raffermi in una sala di “Contemporanea” a Roma, quando mi ero ripreso dall’orrore avevo dato un’occhiata tutt’intorno e avevo scoperto una tela blu tagliata in verticale, un pannello bianco con un punto al centro e serigrafie di margherite su enormi falli di plastica. Ero troppo giovane per temere secchiate imminenti di saggezza e mi ritrovai chino sulla carrozzeria a studiare le infiorescenze di ruggine, e poi a scrutare dentro il blu profondo che precipitava nell’antro subacqueo per scoprirvi barlumi, e ancora a cercare indizi di poesia nei gialli fluorescenti e nei bianchi slavati sui peni artificiali, persino il punto nero a un tratto apparve interessante, se non altro perché circondato di nulla e perciò mi somigliava. Presi la mia mente curiosa, che mentiva anche allora come adesso giacché sapeva costruire piramidi col vertice in giù perfettamente stabili e non m’insegnava nulla dei criteri d’equilibrio dei solidi, e la schiaffeggiai per non aver saputo immaginare nulla di così ardito, e da quel giorno i miei paesaggi cominciarono a scoppiare e i blu, i verdi, persino i rossi così difficili tracimarono dai recinti disegnati dalle maestre e a un tratto li vidi spanti e per nulla timorosi di rimproveri.
Ma ero poco più che un ragazzo, lo spazio che mi stava intorno mi appariva immenso e inesplorato esattamente come il bianco attorno al punto nero e non mi sfiorava l’idea che il mondo fosse già disegnato, che le Terre vivessero già la loro vita da millenni, che altre civiltà avessero conosciuto splendori o proliferassero anonime e decadenti. Tutte le cose aspettavano che io le scoprissi e solo allora si sarebbero manifestate, solo allora sarebbero nate a quel livello della loro evoluzione che non era oggettiva e scardinata dalla mia conoscenza ma ad essa stabilmente collegata e conseguente. Mi sentivo eruttato al centro di un mondo bianco che auspicava i segni della mia matita ed espletavo il compito con frenesia per rivelare una mappa la più vasta possibile ad ogni punto cardinale, certo che la vastità di territorio che mi avrebbe accolto dipendeva solo dalla velocità con la quale lo avrei scoperto.
E forse era così, non avevo dubbi, allora, che ogni cosa, anche la più orribile, svolgesse un ruolo importante nella mia avventura, che la curiosità e l’intraprendenza fossero il motore della mia ricerca, alimentato anche dalla paura che invece di frenarmi causava ulteriori scatti d’orgoglio affinché m’opponessi alla tentazione della codardia. Ogni lembo di conquista anziché crogiolo di vanità diventava la roccaforte dalla quale progettare le future sortite, le vittorie ribadivano l’istinto di condottiero che mi scorreva nelle arterie e ossigenava la mente che mentiva spudorata già d’allora ed io non m’accorgevo del disegno criminoso ordito dalle mie stesse cellule contro di me che le nutrivo.

(continua)
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01/05/2010 08:34
 
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l'ho letto tutto dun fiato,bravo






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- Prendi un piatto e tiralo a terra.
- Fatto.
- Si è rotto?
- Si.
- Adesso chiedigli scusa.
- Scusa.
- È tornato come prima?
- No.
- Adesso capisci?



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01/05/2010 21:58
 
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Il corpo (segue)

Quella che chiamano malattia si era rivelata alla mia coscienza a quella mostra, tornato a casa mi ero sentito male e avevo pensato che fosse l’influenza che, come al solito, mi aggrediva allo stomaco tanto per cominciare. Ma non era un raffreddamento, me ne resi conto dopo venti aspirine che non riuscirono ad alleviare il malessere ed anzi lo stomaco si torceva più di prima, sembrava una crisi ulcerosa che voleva bucare l’intera parete addominale per manifestarsi al mondo esterno, ed anche l’intestino sembrava percorso da un’onda che premeva in ogni direzione e non si decideva a imboccare l’unica via possibile, forse perché non la conosceva o le appariva volgare.
In effetti tutto il mio apparato digerente mi appariva da tempo troppo volgare per appartenermi, avevo condotto una vita così garbata e sensibile per decenni che pensavo di aver conquistato il diritto a un metabolismo gentile, che necessita del bagno una sola volta al giorno, la mattina all’alba quando non sei ancora del tutto sveglio e lo dimentichi presto. In quel breve tempo fra l’alba e l’aurora espletavo tutte le mie necessità volgari comprese le abluzioni di tutte le parti più intime del corpo, e dato che in quell’ora, per così dire del troglodita, non pensavo troppo o non mi pesava la mia origine animale, mi relazionavo anche con i bisogni sessuali, forse scatenati dal contatto manuale, che esaudivo velocemente e questo mi bastava per l’intera giornata.
Non ero mai stato con una donna, consideravo l’unione tra i corpi come l’espressione più infima e triviale degli esseri umani ch’era praticata più per abitudine che per effettiva necessità, nemmeno l’istinto di procreazione poteva giustificare il coito dopo che i progressi scientifici ne avevano garantito le conseguenze in modo evoluto, sicuramente più consono ad un livello di civiltà superiore.
Mi sentivo davvero ad un livello superiore di civiltà, ma non come un sacerdote che ha fatto voto di castità, tutt’altro, se la Chiesa avesse avuto l’umiltà di rispettare la ricerca scientifica, oggi la predicazione della castità avrebbe un senso quasi divino proprio perché applicabile e somigliante alla scelta di Dio, ché anch’egli ha generato prole ma rinunciando alla lussuria.
Le mie fantasie sessuali erano lussuriose giusto il tempo di smorzarle con la masturbazione dell’indomani, semplice, veloce ed efficace quanto la colazione del mattino che la seguiva, uno scarico di energia che sembrava lo sbuffo della valvola d’un compressore. Il pranzo era scarno ed essenziale, non indulgevo mai al piacere della gola, non fumavo, non bevevo alcolici né bibite, non mi concedevo nessun altro piacere che quello della meditazione. Sarei vissuto bene in un convento o in un carcere di massima sicurezza, ed avrei fatto esattamente le stesse cose, gli stessi gesti quotidiani che facevo da decenni.
Quella mattina mi ero svegliato più presto del solito perché volevo visitare la mostra e dovevo arrivare prima degli altri per non fare la fila, tirai un sospiro prima di varcare la soglia del bagno per darmi un po’ di coraggio dato che quella stanza mi appariva ogni giorno più inutile e malsana per un uomo evoluto del terzo millennio. Dovevo esaudire le necessità del corpo che mi accoglieva e che sembrava talmente primitivo al confronto con la mente, la quale però non sapeva più mentire così bene come quand’ero giovane e cominciava a rivelarmi le insidie di quella convivenza.
Quando guardai il mio sesso lui diventò turgido all’improvviso rivelando la cappella violacea, era l’animale che si destava e pretendeva di prevalere sul mio pensiero pudico, per nulla incline ad un momento erotico che si sarebbe risolto in brevi istanti. Seduto sul water dovetti lasciarlo fuori perché ripiegarlo mi avrebbe fatto troppo male, lo osservai, per tutto il tempo che dovevo concedere all’intestino, mentre pulsava e sbatteva sulla tavoletta incurante di tutto e provai un senso di sconforto per non riuscire a comandargli un po’ di rispetto. Aspettava solo che lo menassi in su e in giù. Ma non volevo farlo, mi sentivo troppo uomo quel giorno per cedere ancora al ricatto della natura, che per esaltare un pensiero quasi divino ti concede un mezzo così vile e animale come il corpo umano. Ero stufo di fare il Cristo che si è fatto solo un giro sulla giostra, non sarei potuto fuggire, come lui, per rifugiarmi nel romitaggio divino.
Vieni a vedere cosa vuol dire invecchiare! Gridai al crocefisso.
Vieni a raccontare filosofia a questo cazzo che vuole soddisfazione ogni giorno! Bestemmiai infuriato.
Ma lui sempre dritto si aggrappava alla fune di un ricordo candido stivato nell’angolo più remoto del cervello, del giorno prima forse, quando il vento aveva sollevato la gonna a una giovinetta e mi aveva mostrato le sue mutandine prigioniere dei glutei.
Quella bastarda della mente mentiva a nutrirmi d’arte, di musica, di poesia, di nascosto carpiva scene sensuali e le conservava a mia insaputa per sbattermele in faccia la mattina in bagno, quando la bestia si denudava.

(continua)
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02/05/2010 22:47
 
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Il corpo (segue)

Il mio pene era il nemico più crudele che avessi mai avuto ed ero costretto a portarlo sempre con me, fin da quando ero bambino e lo credevo un giocattolo che allevia la tristezza delle giornate. L’ansia della solitudine mi tormentava quando mia madre mi lasciava solo per andare a lavorare o per recuperare mio padre, perduto in qualche osteria la sera a piangere la nostra povertà, mi chiudevo in una stanza e lo guardavo penzolare fuori della cerniera mentre facevo i compiti o guardavo la televisione. Lo immaginavo come il naso o come un dito di una mano, come un orecchio che non va vestito eppure non provoca scandalo, sembrava un compagno strano che non parla e sta per i fatti suoi ma ti ascolta anche se dici sciocchezze, lo sbattevo sui bordi dei mobili, lo punzecchiavo con la penna, gli spennellavo la punta con la tempera e stampavo i suoi baci sul muro, lo chiudevo fra le pagine di un libro e poi mi appoggiavo con tutto il peso per fargli male. Lo sporcavo di nutella e lo davo in pasto alle mosche che venivano a mangiare la mia merenda, quelle si posavano a sciami e lo succhiavano con le proboscidi fino a farlo diventare duro, poi qualcuna entrava nel cratere del prepuzio ed io la imprigionavo e godevo del suo ronzio. A volte lo legavo stretto con uno spago sotto il glande e lo tiravo come se fosse un cagnolino che non vuole camminare, lo strattonavo, lo impiccavo, lo legavo alla maniglia della porta e mi appendevo stirandolo. Restavo così giornate intere soffrendo per quella stretta ma provando un piacere lento e continuo che solo il dolore può dare. Quando lo liberavo lo immergevo in un bicchiere di latte freddo e poi bevevo il suo sollievo.
Non credo di essere stato un bambino normale, chissà, forse dovrei chiedere ad altri se da piccoli hanno giocato con il loro pene quando ancora non ne intuivano la funzione sessuale, e se fargli male era soddisfacente come lo era per me. Certo, il male lo facevo a me stesso e ne sentivo il dolore, forse volevo essere cattivo con qualcuno e non ne avevo il coraggio ma avevo scoperto il modo per somministrare il male e provarne le conseguenze, cosa che un cattivo convenzionale potrà solo immaginare. Probabilmente dovevo solo sperimentare la mia aggressività che in futuro avrei praticato con diletto e con le stesse modalità.
Da ragazzo avevo imparato sistemi di tortura più raffinati, mentre gli altri facevano le prime esperienze sessuali con le ragazze, io avevo costruito una ghigliottina su misura, lo infilavo nel foro e mollavo un pezzetto di compensato caricato con l’elastico. Ad ogni colpo vedevo le stelle ma lui si gonfiava incurante del dolore, e più diventava duro e il dolore aumentava ad ogni colpo, più dovevo forzare me stesso per infierire e farlo godere così, dopo decine di staffilate davanti allo specchio che mi rimandava il film del mio orgasmo. Anche quella che chiamavo la sedia elettrica era uno strumento piacevole, funzionava con due batterie da nove volt collegate tra loro, un polo lo collegavo ai testicoli con una pinzetta e l’altro doveva raggiungerlo il pene mentre lo spennellavo con l’acqua per stimolare l’erezione. Il cuore andava a mille mentre lo vedevo procedere dentro le guide per collegarsi e chiudere il circuito.
Di là in cucina sentivo le urla di mio padre che non trovava più la bottiglia che aveva nascosto. Lui sapeva che mia madre l’aveva svuotata nel lavandino ma lei negava con tutte le sue forze e gli diceva che deve curarsi, che non può andare avanti così, che bell’esempio che dà a suo figlio. Non era un bell’esempio un padre alcolista, ma io di lui sapevo mentre lui di me non sapeva niente, nemmeno mia madre sospettava le attività perverse di cui ero protagonista e vittima allo stesso tempo.
Lei era una maestra ed era la donna più dolce e garbata che io abbia mai conosciuto, non ricordo di averla mai sentita gridare, nemmeno quando mio padre dava in escandescenze per via della sua malattia, lei era sempre benevola, cercava di calmarlo mentre io mi chiudevo a chiave in una stanza e mi tappavo le orecchie coi fazzoletti di carta, poi veniva a cercarmi e mi consolava raccontandomi di lui quand’era giovane, quando non era ammalato e passeggiava come uno sparviero sui ponti dei grattacieli in costruzione. Non era molto tempo prima, solo qualche anno, lo spazio di una caduta e di un lungo ricovero in ospedale, il trauma alla testa gli aveva portato via il senso dell’equilibrio e lui lo cercava dentro le bottiglie.
Ed ancora quando avevo vent’anni non riuscivo a parlare con le femmine e i maschi non m’invitavano alle feste perché parlavo di filosofia ed ero pesante come un mattone, dicevano, e facevo scappare le ragazze. Non sapevano che ogni volta che scambiavo due parole con una donna il mio pene diventava duro e dovevo nascondermi per la vergogna, che lo avevo costretto in un tubo di cartone legato stretto sulla coscia e lui anziché gonfiarsi si allungava a dismisura e doleva come se me lo stessero strappando, perciò parlavo di filosofia o di storia o di politica, per distrarlo, invece di appoggiarlo sul pube di una compagna d’università mentre si ballava al buio, come sarebbe stato normale se io fossi stato normale, cioè un uomo che lascia sfogo agli istinti quando è necessario e diventa animale quando è l’ora di esserlo.
Privilegiare il pensiero non era l’alternativa ma l’unico modo di concepire la mia vita, e quella bestia che la natura mi aveva messo tra le gambe era il risultato di un accoppiamento ibrido fra una divinità, forse, e un animale, forse, così da ritrovarmi parti dell’una e dell’altro che non riuscivano a convivere. Ma a chi somigliavo di più?
Verso i trent’anni, quando già insegnavo in una scuola della provincia, dovevo frustarlo tutte le mattine prima di uscire di casa, lo castigavo per fargli capire che il padrone sono io e sono migliore di lui, che lo tenevo con me solo perché non potevo tagliarlo e buttarlo via, poi lo fasciavo col nastro adesivo ma lui coi sobbalzi del treno scappellava e diventava come una cipolla grosso e viola e mi faceva piangere per il dolore. Dovevo stringerlo con la mano dentro la tasca bucata e farlo sfogare nel fazzoletto prima di arrivare a destinazione, poi buttavo i suoi semi nelle gallerie dove il buio non li avrebbe fatti germogliare.
Guardavo le donne da sotto gli occhiali scuri sdraiate e scosciate davanti a me e mi apparivano desiderabili dapprima e subito dopo ignobili segnali di bestialità esibita al solo scopo di sedurmi. Ma ero forte e sapevo contenermi, capivo ch’era lui che le voleva e dovevo resistere ai suoi tentativi di plagiarmi, voleva prevalere su di me ch’ero un uomo sfoderando il fascino della sua meschinità, e subito dopo l’odiavo ancora di più, gli promettevo ore di torture una volta tornati a casa ma lui era indomabile, sembrava un eroe dei film di guerra.
Per combattere quella guerra avevo dovuto approntare tutta una serie di armi che tenevo nel cassetto, mollette col bordo seghettato, morsetti a vite, corde di nailon col nodo scorsoio, ma lo strumento più terribile era un fodero di cuoio coi lacci incastonato di chiodi con le punte che sporgevano all’interno, appena tornato a casa glielo facevo indossare e lui era costretto a stare quieto per non restare infilzato. A volte, però, anche senza volerlo, pescava qualche pensiero lascivo tra i ricordi e cominciava il supplizio, più s’ingrossava e più le punte dei chiodi seviziavano la carne, e più lui mi trasmetteva il suo dolore col tramite del cervello che abbiamo in comune, più io godevo all’idea del suo malessere che aumentava e lo menavo con la rotazione dei fianchi a destra e a sinistra sbattendolo sul bacino, sugli stipiti delle porte senza concedergli sollievo. Restavo così pomeriggi interi agonizzante all’apice della sofferenza e del piacere insieme senza cedere all’una né all’altro.

(continua)
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03/05/2010 23:36
 
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Il corpo (segue)

Non ricordo qual è stato l’inizio di questa interdipendenza che riconosco blasfema, da quando il dolore ha generato il diletto, forse l’ho scoperta per caso quando ho deciso che il mio istinto sessuale andava umiliato giacché rappresentava il lato ignobile ed oscuro di me, ma so che d’allora è progredita insediandosi in territori disabitati, in deserti che sarebbero rimasti aridi, e la geografia del mio mondo s’è ampliata.
Dapprima avevo percorso come un acrobata la linea di confine, quella fascia sottile di pochi secondi che precede l’orgasmo, oltre la quale c’è una nazione sconosciuta, presidiata da sentinelle che non ti danno spiegazioni ma t’impediscono il passo, avevo indugiato con lo sguardo ma sapevo solo immaginare ciò che il paesaggio mi negava, all’apparenza scarno e privo d’attrattive, ma che la mia fantasia impreziosiva in lontananza con città risplendenti forse più di quelle conosciute e visitate tante volte.
Un passo oltre la linea fu una violazione veniale, un morsetto dentato stretto al culmine della masturbazione, che rientrava con l’andamento della camminata nei recinti prescritti lasciandomi solo una foto rubata, poi sentieri sempre più lunghi celati alla visuale delle guardie ma sempre orientati al ritorno più o meno celere a seconda delle circostanze e il mio album s’arricchiva di ricordi che potevo consultare nei momenti di noia. Fino alle sortite di un’intera giornata che mi lasciavano il gusto del turista che aspira all’integrazione, che adotta usi e costumi esotici pur di rivelarsi formattabile.
Cosa accadde dopo non lo so, il dolore temporaneo, finalizzato ad esaltare il piacere in quanto sensazione antagonista, lo sostituì diventando esso stesso motivo di godimento che prescinde dall’eiaculazione. Ogni volta che la mia personalità vera cedeva all’altro me privo di dignità morale, dovevo percorrere una strada irta che era esclusivamente fisica e di quella fisicità teatro impietoso di réclame, un tubo infilato nella succlavia che incurante dei tuoi sforzi evolutivi ti nutre di brutalità, mortifica le aspirazioni ad un’esistenza cortese sbattendoti in faccia le tue origini che non puoi rinnegare.
Non fu un passaggio repentino, ma un giorno mi scoprii a vivere e ragionare la mia giornata in funzione dei supplizi che dovevo infliggermi, o che dovevo infliggere al corpo per punire le sue intenzioni d’esistenza troppo diverse dall’evoluzione mentale che avevo raggiunto. Ma era paradossale che provassi piacere nell’organizzazione delle torture, nella costruzione degli strumenti, nel pensiero stesso del dolore che avrei provato applicando le mie invenzioni. Era un piacere sessuale, un’eccitazione fisica che non aveva giustificazioni, stimolante più di quanto potessero le immagini sensuali archiviate nella mente.
I preliminari con la costruzione e l’applicazione dello strumento mi causavano il batticuore che durava fino ai primi sintomi di malessere e lì interveniva il desiderio di provare un livello superiore, ma anche l’istinto di sottrarmi al supplizio. Queste due forze erano equivalenti. L’intensità del dolore sembrava collegata all’erezione in modo direttamente proporzionale, qualche volta avevo smesso la tortura e il cedimento mi aveva causato dei sensi di colpa per aver privilegiato la componente materica di me, quella che si cura di mantenere il corpo sano ed efficiente per poter svolgere le sue funzioni nel migliore dei modi, ma sapevo già che l’obiettivo finale della strategia della natura consisteva nella riproduzione della specie perseguita attraverso i tentativi ripetuti di procreazione, e la consapevolezza di una tale riduttiva funzione mi causava un patimento insopportabile.
Io volevo sottrarmi a quest’obbligo ma pretendevo che anche il corpo lo rifiutasse, volevo che il mio pene si ergesse alienando la lussuria, fantasticando e realizzando la propria pena, perciò riprendevo con più ardore, questa volta forzando l’autotutela delle mie cellule, il loro principio costitutivo, e realizzavo con determinazione ciò che mi faceva sentire più che uomo, non molto, un gradino più su, forse, quel tanto che bastava per credermi non completamente assuefatto alla bestialità e che poteva sembrare un trampolino di lancio verso sviluppi sovrumani.
Decenni di abitudini animalesche, seppur moderate dalla mia personalità rivolta all’evoluzione, avevano reso ancor più evanescente il senso spirituale che mira al divino, il traguardo estremo della psiche umana, ch’era mortificato dallo scenario dei corpi e suo malgrado costretto a vestirne le membra. Aspiravo ad elevarmi trascinando un peso grave che non riconoscevo ma col quale ero costretto a transazioni umilianti.
Tuttavia la mia abilità riusciva a mediare soluzioni politiche soddisfacenti, verso i quarant’anni ero riuscito a dominare la tendenza alla virilità educando la mente agli incontri ravvicinati con l’altro sesso, non soffrivo più di erezioni selvagge scatenate dalla presenza di una donna, sapevo dialogare con le mie allieve allampanate che mi sventolavano i seni sulla faccia o col grembiule corto della domestica che spolverava il lampadario senza mostrare il minimo segno di debolezza carnale, un po’ come il ginecologo che conversa con la paziente mentre le infila due dita in vagina. Il mio pene se ne stava zitto e buono nel suo fodero di cuoio chiodato e ogni tanto gli mandavo una scarica elettrica dato che lo tenevo costantemente collegato col circuito mobile.
Le donne in attività sessuale che mi parlavano non potevano immaginare le mie dita che le stupravano, né il mio pene nella sua armatura né tutti gli anni di torture che mi ero inflitto, nemmeno a guardarmi dritto negli occhi sapevano leggere il ribrezzo per la loro funzione e a volte pensavo che avrei dovuto punirle inventando strumenti anche per esse, peni artificiali che rivelano chiodi a comando, morsetti dentati per il clitoride, circuiti elettrici collegati ai capezzoli. Ma avevo paura di questi pensieri, erano come un altro territorio sconosciuto che mi affascina ma che è così infido da non provare a calpestarlo senza aspettarsi agguati, piuttosto lo avrei percorso concordandolo con una compagna d’avventura animata dagli stessi propositi, ma era troppo tardi.

(continua)

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Post: 5.336
Città: ROMA
Età: 44
Sesso: Femminile
04/05/2010 13:50
 
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04/05/2010 23:07
 
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Il corpo (segue)

Negli anni successivi credevo di aver conquistato l’equilibrio psichico che cercavo, che non era nulla di eccezionale eppure mi aveva sottratto troppo tempo, avevo raggiunto un compromesso col mio istinto sessuale privandolo del suo fine ultimo ma anche dei suoi tragitti consueti, gli avevo riservato una piccola stanza nella quale si rifugiava la mattina presto per trovare sfogo e durante il resto della giornata lo affliggevo.
La mia secchiata di saggezza mi aveva colto verso i cinquant’anni congelando il fermento d’idee, il suo colore marrone striato di grigio come i tronchi dei castagni mi tinse all’improvviso dalla sera alla mattina e mi risvegliai anziano nonostante che avessi fatto un bel sogno di ragazzino svolazzante come Peter Pan. A quel punto avrei dovuto smettere di pensare, consolidare le mie convinzioni a quel livello d’evoluzione e convincermi di aver fatto tutto il possibile per emanciparmi, da bestiolina qual ero quando sono nato, tutta rivolta ad esaudire i bisogni fisici, a uomo che esalta l’attività intellettuale astratta.
Avevo ancora il mio corpo che spendeva gran parte delle sue energie nella ricerca di soddisfazioni concrete o in propositi di sopravvivenza e che sembrava indifferente a tutte le strategie e le forzature che avevo attuato per ridurne l’esuberanza, era un corpo che voleva ancora interagire col mondo reale che non percepiva limitato ma del tutto appagante per le sue necessità. Ma non era confacente a me che ero costretto a frequentarne le periferie, attigue a quei giardini di serenità dove il mio spirito volava di notte ma che non potevo raggiungere durante la veglia, e raccattavo indizi di pace, di bene, di luce divina forse, o forse solo il desiderio più vivo e profondo dell’uomo di una metamorfosi che lo sottragga all’esilio, il ritorno al Principio.
Per decenni mi sono nutrito d’arte, di musica, di poesia per sentire il profumo di quei giardini ma capivo ch’erano essenze artificiali, espedienti alchimistici che ti fanno sentire, sì, bramoso di sentimenti elevati ma avvilito per la tua incapacità di coglierli.
C’era qualcosa oltre le stelle ed io lo sapevo, non riuscivo a vederla con questi occhi umani ma era presente in me con tutta la forza iniziale che mi aveva scaraventato dentro quel sacco nel quale mi dibattevo, ma col quale ero costretto a condividere il percorso perché era lui che nutriva le mie cellule cerebrali, com’era stato l’utero di mia madre, e mi sarei aspettato di nascere, infine, utilizzando quel processo terrorizzante che chiamiamo morte ma che forse è solo un passaggio necessario per liberarsi del sacco. Ma era ancora presto.
Ero in una stazione della vita troppo avanzata per rammentare l’avvio e formulare progetti, ma ancora lontana dalla destinazione per radunare i bagagli. Ero proprio nel posto dove cade la pioggia di colore, dove ti fermi e cominci davvero a sopravvivere pensando che, tanto, quello che è fatto è fatto, che non avrai più opportunità nemmeno di pulire la morchia dei tuoi ragionamenti, dove l’audacia diventa imprudenza e il timore saggezza e i rimpianti motori senza carburante e i rimorsi pozzi artesiani estinti.
Così quel giorno mi guardai allo specchio e mi dissi: sei vecchio! E subito mi ritrassi temendo che mi arrivasse un ceffone, ma quello lì se ne stava fermo e mi guardava più attonito di me, poi si avvicinò per scrutarmi da vicino e, per la prima volta, mi accorsi che stentavo a riconoscermi, che fino a quel momento non avevo memorizzato la mia immagine e mi vedevo come un estraneo. Sapevo d’essere io, solo perché conoscevo le proprietà dello specchio ma se mi fossi visto in una ripresa televisiva o in una foto non mi sarei riconosciuto. Lui era così magro che sembrava un ebreo nei campi di sterminio, il viso scavato, le costole che si contavano, le cosce sottili come le braccia, il pene rilasciato scuro di lividi e cicatrici, ero fatto così, e i capelli inceneriti, gli occhi affumicati, il naso ch’era un ramo scampato alle fiamme, la bocca segnata col carboncino, le orecchie trasparenti come le foglie d’acero. Ero io che m’ero consumato. Indossai il fodero di cuoio spinoso, ne strinsi forte i lacci e il dolore intenso fu più efficace di un caffè, mi vestii e andai a visitare la mostra.

(continua)
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05/05/2010 23:26
 
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Il corpo (segue)

La sorpresa fu di trovarmi in un luogo così lontano dai giardini di serenità che sognavo, non un’opera che fosse degna d’essere ammirata, non pittura né scultura ma accozzaglie informi di materiali eterogenei che avevano lo scopo di scioccare l’osservatore.
Avevo sempre pensato che l’artista fosse come un sacerdote e che aiutasse a condurre lo spirito umano verso sentimenti elevati, quelli che la lotta quotidiana per il lavoro, il guadagno, il benessere materiale costringe in spazi sempre più angusti e che sei costretto a visitare di rado, perché ti manca il tempo o perché ti assuefai alla brutalità della vita e non ne senti più la necessità. Perciò esistono i musei, pensavo, come esistono le chiese dove vai a cercare la consolazione divina, e lì non ti aspetteresti mai di trovare una bancarella del mercato o lo sportello di una banca, ci trovi un sacerdote al quale non chiedi consigli su come investire i tuoi soldi, ma gli chiedi di farteli dimenticare, di farti capire che non sono importanti come credi, di farti pensare a cose più belle e più utili persino della tua prosperità fisica.
Paul Klee diceva che l’arte, pur con tutti i suoi limiti, serve a rendere visibile ciò che non lo è, perciò ad insegnarti a vedere con gli occhi dell’anima, quella parte di te immacolata che ha bisogno anch’essa di nutrimento, io ci credevo ed era quello che cercavo ma a quella mostra avevo trovato lo squallore dell’esistenza tangibile, gli abissi dove la materia s’incontra con l’uomo e lo inganna a tal punto da convincerlo ch’è solo materia.
Non sentivo più l’appetito di cose nuove che avevo da giovane né la curiosità che mi spingesse a cercare segnali fonetici dispersi da ricomporre in poesia, chi aveva seminato lumicini non poteva aspettarsi che io li cogliessi per farne un faro, perciò me ne andai e presi a girare per le strade in attesa di un’idea di destinazione.
Le persone mi sembravano volpi affamate che annusano i solchi e a passi spediti perlustrano il campo, si fermano e drizzano le orecchie per ascoltare i rumori soffiati dal vento, poi riprendono la cerca al limitare del pioppeto e nei canti dei muretti, lungo i filari di viti per raccattare acini o azzannare musi di talpe affiorate nei fossi.
Le cornacchie giravano larghe sui dintorni della città, nei pressi del vecchio cimitero assediato dai castagneti dove da ragazzo andavo a cercare i funghi e mi sedevo sotto nonno Giobbe, un albero secolare che aveva i rami orizzontali lunghi decine di metri, aspettavo che gli uccelli neri, dopo aver becchettato sui dossi delle tombe, venissero a posarsi all’imbrunire. Nella mia mente di ragazzo c’era l’idea che mangiassero la carne putrida dei morti e che fossero neri per questo, anche il loro verso sgradevole faceva supporre che si nutrissero di cadaveri, perciò avevo ideato uno stratagemma per indurli a beccare il mio pene, mi ero sdraiato ai piedi di nonno Giobbe e mi ero ricoperto di foglie lasciando uno spazio proprio lì dove il mio nemico languiva cinereo. Ma solo una gazza si posò nei pressi e nemmeno lo scambiò per un lombrico, così che dovetti riportarmelo a casa anche quella volta e la sera lo ghigliottinai diverse volte fino a farlo svenire.
Quel ricordo mi aveva commosso e pensai che avrei dovuto rivisitare quei luoghi, magari con la scusa di andare a far visita alle tombe dei nonni, ché tutti erano lì dormienti da tempo, e programmai la gita per il prossimo due Novembre.
Nel frattempo mi ero ammalato di quella che poi i medici definirono gastroenterite psicosomatica, dato che tutti gli esami possibili e immaginabili esclusero qualsiasi altra patologia. Successe che cominciai a star male e pensando che fosse un’influenza mi curai da solo con l’aspirina ma ottenni il risultato di dover far uso del bagno dieci volte al giorno. La frequentazione di quella stanza si rivelò traumatica e dovetti fare i conti con questa schifezza di corpo che, per la prima volta dopo tanti anni, contravveniva al nostro accordo ed esprimeva tutta la sua barbarie senza ritegno.
Mi sentivo così vile per non riuscire a frenare in alcun modo quell’esplosione di volgarità che si manifestava inaspettata e proprio nel momento in cui avevo più bisogno di stare in pace con me stesso, per poter affrontare lucidamente quel passaggio difficile verso la vecchiaia. Sembrava che il corpo me lo facesse apposta a rendermi tutto più drammatico, come se volesse dirmi, sì, finora sono stato buono perché tu avevi una mente vivace e sapevi dominarmi ma ora che cominci a rallentare prendo il sopravvento e ti faccio vedere io chi comanda. Lo sentivo torcermi da dentro e procurarmi un dolore che non trovavo affatto piacevole, del tutto diverso da quello che sapevo procurarmi da solo, non erano le mie torture godibili ma la risposta del nemico indomito che ha subito paziente l’assedio e infine approfitta di una distrazione per reagire con tutte le sue forze residue.
Una notte i vicini, sentendo i miei lamenti, mi portarono in ospedale e lì mi attaccarono a una flebo. Durante una visita i medici si accorsero del mio pene e mi fecero un sacco di domande, io non sapevo che rispondere e non volevo raccontare i fatti miei, dissi che m’ero lavato con un sapone che mi aveva procurato un’allergia, ma altro che allergia, dissero, quelle erano cicatrici, punture di chiodi alcune sanguinanti o in suppurazione, lividi prodotti da traumi ricorrenti. Non dovetti apparire sincero e nemmeno molto lucido, chiamarono lo psichiatra che mi chiese se svolgevo pratiche erotiche sadomaso ma io mi serrai la bocca e non risposi più a nessuna domanda.
Fui dimesso dopo un mese e i medici mi dissero che non avevo nessuna malattia, almeno fisica, mi dissero pure che avrei dovuto presentarmi nel reparto di psichiatria una volta la settimana e che un assistente sociale sarebbe venuto a trovarmi a giorni alterni. Ma io non lo vidi mai, forse perché non era facile trovarmi durante il suo orario di servizio, uscivo presto e rientravo a pomeriggio inoltrato passando la giornata nella cittadella universitaria o per musei e gallerie d’arte. La sera staccavo il telefono e mi chiudevo in biblioteca.
Per qualche settimana mi presentai all’ospedale e parlai con lo psichiatra, parlai di storia e di filosofia, non certo delle mie abitudini, finché lui capì che non ero pazzo dato che non davo in escandescenze ed ero lucidissimo, qualche volta provò a farmi domande sulle condizioni del mio pene ed io gli dissi che non avevo alcuna intenzione di parlarne e che le mie perversioni sessuali erano fatti miei. Forse si convinse ch’ero solo un depravato e mi lasciò libero.

(continua)
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07/05/2010 23:31
 
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Il corpo (segue)

Quando varcai il cancello del cimitero una nuvola di storni, che s’era levata dai dossi, prese a liquefarsi e a gorgogliare sfilacciandosi mentre veniva risucchiata nella notte verdastra dei cipressi, ai miei lati i filari inseguivano una prospettiva ingenua fatta di fughe e steccati di tronchi, di pareti arboree graffite a tratti fini e leziose più di una pineta. La terra s’era ingiallita e levitando, trapassando gli scheletri degli alberi fioriva in cielo velandosi d’azzurro, lì abbagliata inverdiva, scivolava piangente e tornando ammuffiva sulle lapidi prima di balzare ancora nei sentieri spogliata dei colori, di nuovo antica.
L’ossimoro balzò pure su di me che antico mi sentivo da poco ma, immerso in un paesaggio che sembrava dipinto da Giotto, anche di nuovo stupito, mi sorpresi a immaginare testine d’angeli dipinte sul blu invecchiato e un presepio intarsiato su sfondi montani e lontano, sorgente dal sentiero appeso, un chiodo arrugginito ch’è un pino.
Ero ancora un bambino se volavo nel mio sogno, che fosse pure un cimitero e l’intonaco della cappella dei nonni o la nuvola di storni che ora ammansita, sputata dal bosco ondeggiava.
Le facce dei morti tutte occhieggiavano e sembravano dirmi sono qua, sono io, anzi è qua il mio sacco dismesso nel quale ho vissuto la mia avventura di uomo e dal quale son dovuto fuggire quand’è invecchiato o gli è capitato un incidente o s’è beccato una malattia. Ho creduto, come tutti, d’essere lui mentre facevamo la stessa strada, avevo dimenticato di averlo scelto per caso, giacché l’uno vale l’altro, quando lo incontrai a un bivio, poi il cammino fu lungo e lui aveva gambe buone, gli ho concesso i piaceri che cercava ma non erano i miei e a quel punto credevo già d’essere lui e l’ho creduto fino al bivio successivo, quando ha imboccato da un lato verso la terra da dove era venuto e io dall’altro, finalmente rinsavito nell’attimo della morte.
Ma dove siete, adesso? Ripetevo. Dove siete veramente?
Nessuno mi rispondeva, meno male perché se avessi udito una risposta allora era chiaro ch’ero pazzo, però mi figuravo nella mente tutte le possibilità e li immaginavo ora privati della gravità svolazzanti nei miei giardini, o in attesa, come alla fermata dell’autobus, di un altro corpo da colonizzare, o evaporati per sempre ai limiti dell’universo a formare l’antimateria che lo schiaccerà e poi esploderà di nuovo, o imprigionati ognuno nelle proprie cellule cerebrali per contare a ritroso gli ampere prima del sonno.
Come una batteria che si scarica e muore, così mi vedevo, ancora capace di trascinare un ingranaggio che emette un lamento d’agonia, o di accendere un lumino fioco che ansima.
Eppure riuscivo ancora a commuovermi. L’inganno dei sensi mi dominava ed io accoglievo il suo dominio, lo esaltavo credendo che i suoni e i colori e i concetti elevati espressi dagli artisti fossero il pane dell’anima, ma cominciavo a sospettare che anch’essi, ahimè, sono solo raffinati alimenti del corpo e se li riconosci ti senti più soave e leggiadro.
Come puoi esserlo dentro un porcile dove annaspi nel fango e negli escrementi e pensi che domani andrai a visitare una mostra o ascolterai un concerto o ti sdraierai nell’angolo più lurido a recitare poesie. Ah, che schifo mi facevo!

A un tratto mi sentivo talmente meschino che arrossivo pensandomi, ogni giorno che trascorrevo in compagnia del mio sacco m’insudiciava e non riuscivo a fargli capire che dobbiamo separarci, che ho altri interessi che non possiamo condividere. Lui era come un compagno che è buono per giocare a carte o per bere insieme un bicchiere di vino, ci potevo trascorrere due ore della giornata e invece lo avevo sempre fra i piedi, era invadente, pedante, presuntuoso, non lo sopportavo più ma non potevo ucciderlo perché avevamo condiviso troppe cose e avrei ucciso anche una parte di me, ma dovevo mettergli dei paletti che non doveva superare, solo così potevamo continuare a frequentarci.
Avevo pure dimenticato d’indossare il mio fodero di cuoio chiodato, perché il mio pene non era brillante come un tempo e non avevo tanto bisogno di punirlo, e poi dovevo far guarire le ferite per timore di controlli a sorpresa.
Ma ora volevo sentire un dolore, forte come una droga che ti spappola il cervello, mi serviva una bomba per annientarmi. Cominciai a smaniare in cerca di qualcosa, di uno strumento estemporaneo che potesse penetrarmi le vertebre e paralizzarmi e capitai nel cantiere di una cappella, trovai un chiodo e senza pensarci, con l’impeto del suicida, mi scoprii il petto e ne trapassai il muscolo da parte a parte.
Il dolore fu allucinante e mi piegò le gambe, smorzai il grido in gola ma non riuscii a trattenere le lacrime, per un po’ pensai di morire e lì, seduto accanto ai morti, mi sembrò un posto appropriato, poi il respiro, che sembrava si fosse arrestato trafitto dall’arma, riprese insieme a un lamento e piano la luce che m’aveva abbagliato cominciò a diradarsi e mi guardai.
Il chiodo era conficcato nel muscolo pettorale e lo passava da destra a sinistra poco sopra il capezzolo, il dolore era intenso ma cominciavo ad apprezzarlo in tutte le sue escursioni, dalle fitte tremende, al bruciore, al fastidio che procurava il corpo estraneo mentre i polmoni si gonfiavano. Lo toccai ed era ben saldo nella sua sede, non c’era il rischio che si sfilasse, perciò mi alzai, sistemai un fazzoletto sulla ferita ed abbassai il maglione, non sanguinavo molto perché di sangue ne avevo poco e il metallo tappava i vasi lacerati.
Mi sentivo meglio ora che il dolore mi collegava costantemente col corpo, tornai a casa ed ero felice pensando al mio chiodo infisso nella carne, quasi più che fantasticando sul paesaggio del cimitero immaginando il dipinto di Giotto. Sì, ero felice e ogni tanto mi toccavo il petto per sentirne la forma sconvolta e la bozza di fibre ingrossate dall’edema. Davanti allo specchio mi denudai, indossai il fodero di cuoio e sorrisi di quel giocattolo quasi innocuo ch’era ormai un ricordo della mia gioventù, ero grande adesso e avrei giocato col mio corpo adulto con strumenti adeguati.
Il dolore nuovo che provavo era lì visibile ed era una porta su un territorio sconosciuto che non mi sarei aspettato di scoprire a quel punto della mia vita. Quando pensavo che niente mi avrebbe più emozionato era invece arrivato un amore grande, un’altra partenza che mi dava l’entusiasmo e il batticuore dei ragazzini. Avevo sostituito il vertice della piramide con l’area della sua base che può essere infinita, il culmine non percorribile e acuto fino agli estremi sconosciuti della geometria, con un pianeta così vasto da non bastare una vita per conoscerlo.
Il primo passo fu di procurarmi gli strumenti adatti, in pochi giorni montai un piccolo compressore e vi applicai una pinzatrice, di quelle che servono per montare gli imballaggi di cartone, in farmacia acquistai ago e filo per suture, bisturi e pinze, siringhe e fiale di antibiotici e un vaccino antitetanico, non potevo rischiare che il compagno mi si ammalasse proprio ora, cicatrizzanti e anestetici per i casi d’emergenza, garze e bende e organizzai la mia sala chirurgica. Sistemai tutto il materiale sopra un carrello accanto allo specchio e restai per ore ad osservarlo immaginando la funzione di ognuno e mimando le operazioni che avrei compiuto. Il cuore era in fibrillazione e non ricordava più il suo ritmo esatto, andava veloce ed io mi lasciavo prendere dall’eccitazione come un sub che ha respirato per troppo tempo dalla sua bombola d’ossigeno, dovevo compensare con periodi di apnea e concentrazioni profonde per restare presente a me stesso. Ero in viaggio, ero io che me ne andavo e non sapevo nemmeno quando e dove sarebbe stato l’arrivo.

(continua)
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08/05/2010 22:51
 
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Il corpo (segue)

Il primo taglio fu sul braccio sinistro, dalla spalla al gomito, volli eseguirlo lentamente per gustare il dolore in ogni particolare, con calma eseguii un’incisione profonda e cauterizzai i vasi sezionati col saldatore. Il dolore era tremendo e riuscivo a sopportarlo perché il piacere psichico che mi procurava era ancora più forte. Per non rischiare sofferenze improduttive avevo pronte alcune fiale di morfina che mi ero procurato al mercato nero, ma non dovetti usarle quella volta.
Finito l’intervento ammirai la mia bella ferita, era rossa come non penseresti mai che possa essere la tua carne giacché di essa vedi solo lo strato esterno di derma che la ricopre e il primo pensiero che ti viene è che non è roba tua, non ti appartiene, è impossibile che tu sia fatto così, somigliante agli animali che vedi appesi in macelleria. Ed è per questo che devi conoscerti, sezionarti e vederti dentro, per capire quanto estranei siano il corpo e la mente e capire che una tale convivenza è l’atto politico estremo della natura, la sintesi che produce i concetti.
Io ancora non lo sapevo ma il culmine della mia malattia era una terapia della mente per scongiurare il distacco definitivo dal corpo, che avrebbe causato esiti irreversibili.
Quando il medico me lo disse io non volevo crederci, per un anno avevo martoriato il mio corpo credendo di punirlo e invece volevo riconciliarmi con lui, accettarlo come non avevo saputo fare fino ad allora. Nell’età in cui lui cominciava a morire, la mente che mentiva mi diceva d’essere il corpo e temevo che sarebbe morta anche lei, tutti gl’indizi e le conoscenze accreditavano questa ipotesi ed io non volevo accettarlo, non volevo credere ch’ero stato un corpo pensante fine a se stesso.
Mi diedi molti punti di sutura grossolani e nei mesi successivi mi procurai altre ferite al tronco, alle gambe, cucii il mio pene alla coscia e gli applicai coi rivetti il fodero di cuoio, pinzai stecche di legno e di plastica alle braccia, chiodi passanti ai polpacci e per ultimo provai a bucarmi un piede col trapano. Quello fu l’intervento che mi fece scoprire, perché la punta si piantò nel tarso e mi spappolò le ossa, gridai come un maiale al macello e i vicini chiamarono la polizia che buttò giù la porta e mi scoprì in un lago di sangue. Da quel giorno sono ricoverato in quest’ospedale e non vogliono dimettermi anche se io sono sicuro d’essere guarito.

Passarono mesi prima che le ferite si cicatrizzassero e gli arti riprendessero le loro funzioni consuete, anche la mia mente colpita dagli stessi malanni fu curata con garbo e guidata sull’asta sospesa per ritrovare l’equilibrio. I medici mi spiegarono che tutti rischiamo ogni giorno di mettere un piede in fallo e di perdere il contatto col mondo reale.
La realtà, mi dissero, è un’asta sottile che bisogna percorrere come un acrobata e non tutti ci riescono, qualcuno cade, altri lo fanno con abilità innata, altri ancora devono essere istruiti e guidati perché vogliono imparare, ma non è così semplice, razionalmente è facile immaginare che a trent’anni dovremmo essere già tutti pazzi. Ma l’uomo ha capacità di adattamento impensabili, riesce a inventare la serenità in situazioni disastrose, a elaborare il concetto di sé e adattarlo alle circostanze, a inventarsi giorno dopo giorno una propria identità che gli consenta di sopravvivere, questo è l’equilibrio.
In fondo, le mie perversioni giovanili relative alla sessualità, il voler mortificare la mia discendenza ibrida della quale riconoscevo gli estremi opposti, mio padre alcolista e brutale e mia madre angelica, erano un modo, primitivo o ingenuo, per mantenermi in equilibrio. Mio padre era il corpo e mia madre la mente, stavano insieme ma non avevano nulla che li accomunasse, tranne me che di entrambi avevo qualcosa, la volgarità del mio corpo e la soavità del mio pensiero.
La malattia si era rivelata quel giorno che mi guardai allo specchio e non mi riconobbi. La parte di me che nel corso degli anni si era allontanata verso dimensioni astratte e che si era costruita un mondo irreale, l’habitat ideale della mente, stentava a ricollocarsi in ambiti concreti, rigettava il concetto di sé quale strumento di guida e custodia del corpo e nell’imminenza di un distacco definitivo, che avrebbe annientato entrambi, un lampo di terrore l’aveva fermata. Ma non poteva rientrare sorridendo come se nulla fosse accaduto, già non si riconosceva più nel supporto riflesso, e tornando, credendolo estraneo ma sapendolo meta ne restò ai margini, inventò un gioco per coinvolgerlo e percorrere ancora i canali di scambio.
Il dolore in principio ch’era la via più rapida e poi l’olfatto, il gusto, l’udito, e quando alzai ancora lo sguardo in ospedale finalmente mi riconobbi.
Ero un grumo d’argilla raffazzonato senza garbo e tenuto su con stecche di recupero. Alcune erano fascette di legno fragile sagomate come cornicette da parati, altre ritagliate dalle bottiglie di plastica, altre ancora erano così grossolane da sovrastare con la loro volgarità ogni ispirazione di grazia. Ero una di quelle sculture d’arte povera che trovi pure alla Biennale, un gioco di bambino si potrebbe dire, o un passatempo di demente, o meglio ancora la prepotenza di chi vorrebbe far credere che lo stile e la tecnica siano concetti che devono essere superati e sostituiti dall’improvvisazione, disarmonica ad ogni costo per scatenare il disgusto nell’osservatore. Ero io, ero l’opera di un artista che non crede nemmeno più nel suo ruolo e si tuffa negli abissi della materia, ma l’opera lo contraddice e vive da sola la sua tragedia, e si arrampica, a volte arrivando a vette elevatissime.
Questo piccolo brutto essere ch’è l’uomo, a volte riesce a fare poesia o musica o pittura, una poca cosa ma uno sforzo enorme che commuove.

(fine)
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09/05/2010 21:52
 
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Ho voluto dedicare questo racconto al mio amico Roberto, compagno di accademia alla fine degli anni 70. L'ultimo ricordo che avevo di lui erano le sue urla, si era rinchiuso in un'aula e non voleva più uscire, aveva distrutto tutto e minacciava di uccidersi, chiamammo i carabinieri e poi i vigili del fuoco riuscirono ad entrare e fu accompagnato in ospedale. Roberto si era tagliato ma il suicidio non gli era riuscito, passò diversi anni fra ospedali e case di cura, quando sembrava guarito aveva vinto un concorso e insegnò per qualche anno, ma la malattia lo riprese e fu internato definitivamente.
Dopo trent'anni è venuto a visitare una mia mostra e ci siamo rivisti, è un poeta delicato e sensibile e si dedica alla realizzazione di piccoli monili d'argento. E' sempre sotto controllo dei medici ma affidato alla famiglia.
Ha voluto raccontarmi la sua storia ed io l'ho interpretata e girata a voi. Grazie per averla letta.
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