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Ultima Notte a Twisted River

Ultimo Aggiornamento: 01/12/2010 13:38
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Sesso: Femminile
01/12/2010 13:38
 
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di John Irving
L’ultimo romanzo di John Irving è un’opera impressionante. Non soltanto per la mole (a quello noi devoti seguaci siamo abituati), ma soprattutto per l’enorme quantità di “argomenti” che quest’opera cerca di visitare, scandagliare, illustrare, analizzare, guardare da vicino e dal di dentro. A fine lettura, la cosa che rimane maggiormente impressa nella mente è la completa mancanza di verosimiglianza negli snodi principali della trama, dall’omicidio involontario con cui il romanzo inizia a dispiegare le sue spire fino ad un finale assolutamente inaccettabile da un punto di vista esclusivamente logico. E da questa banale considerazione si possono diramare un enorme numero di “sottoconsiderazioni”. Ad esempio, la prima che viene in mente: “Chi ha deciso che un testo narrativo debba essere verosimile?” E allora tutta la favolistica che fine farebbe? Ma queste sono le domande più banali, le risposte più sensate e complete le fornisce direttamente l’autore nel sontuoso dipanarsi del romanzo. Come scrivevo poche righe fa, in questo testo Irving esplora molti mondi, e se alle sue famiglie, a dir poco non convenzionali e allargate, siamo ormai abituati, ciò che maggiormente è interessante sono le riflessioni sulla scrittura, sull’essere uno scrittore e cosa sia la narrativa. Detta in questo modo si potrebbe immaginare di trovarsi di fronte ad un saggio, ma non è assolutamente questo il modo in cui l’autore ci sottopone i suoi pensieri. Aiutato e sostenuto dal protagonista, uno scrittore di buona fama e buone vendite (guarda caso che coincidenza) Irving ci trascina nella testa di una persona che vive per scrivere, usando le proprie giornate alla ricerca del giusto incipit, della frase esatta, del miglior modo per comunicare emozioni attraverso la parola scritta. Lo scrittore protagonista del romanzo ha una storia complicata, una famiglia “à la Irving”, un figlio di cui preoccuparsi ed è regolarmente sottoposto a tour promozionali all’uscita di ogni nuovo libro, ma la sua mente lavora costantemente alle parole, al loro modo di assemblarsi, di formare un perfetto magma emozionale che travolta e trasporti il lettore via dalla sua vita per fargliene vivere un’altra.

Irving lo sa e lo fa per scelta, la sua trama è quasi campata in aria e lui se ne frega, anzi, forse l’ha resa ancor più strampalata per confermare quanto ci racconta il suo protagonista: uno scrittore deve saper immaginare. La grande scommessa arriva subito dopo: rendere avvincente quanto si è immaginato, a dispetto della verosimiglianza e del buon senso comune. Certo, l’immenso scrittore con cui abbiamo a che fare è forse l’unico che possa riuscire in questo intento. Gli altri, quelli anche bravi ma “normali”, sono costretti a scrivere di storie credibili, magari non banali ma senza troppi scossoni logici per non turbare la sospensione dell’incredulità che sono riusciti a generare nel lettore. Irving non fa patti di finzione con i suoi lettori, li porta dove vuole e come vuole dalla sua parte soltanto con la sua arte deliziosa e inconfondibile. In quest’ultima opera, oltretutto, riesce a far questo impreziosendo il testo con deliziose autocitazioni che soltanto chi ha letto la sua intera bibliografia riesce a cogliere a pieno. Per come mi sono permesso di capirne lo spirito, le autocitazioni non sono una civetteria, sono un sottolineare l’artificiosità della narrazione ricorrendo a quell’espediente con naturalezza, come un grande giocoliere che riesca a far volteggiare tra le mani una clavetta più di tutti gli altri, ma senza vantarsene, come un esperto ebanista realizza i suoi intarsi soltanto per rendere migliore il suo mobile, non per farsi dire quant’è bravo. Della storia in sé non credo sia utile parlare, sarebbe come fare i raggi X all’intero scheletro dell’uomo o della donna più belli del mondo e poi farla vedere in giro sperando che qualcuno riesca a coglierne la delicatezza dei lineamenti, l’affascinante sfuggevolezza del sorriso o la particolarità del colore degli occhi: chi vuole una cronologia dei fatti non ha bisogno di questo libro.

Per finire un consiglio: chi non si è mai avvicinato alla lettura di John Irving (a parte aver perso uno dei più grandi piaceri della vita) non lo faccia con questo romanzo, ma legga prima i suoi romanzi migliori, quelli che sono senza alcun dubbio pilastri della narrativa mondiale. Dopo avere assaporato il geniale “Il mondo secondo Garp”, lo struggente “Le regole della casa del sidro”, l’iperbolico “Hotel New Hampshire” e l’inarrivabile capolavoro che ha per titolo “Preghiera per un amico”, potrà godere completamente di quest’ultimo potente e onnicomprensivo romanzo. Per tutti quelli che invece non vogliono darmi ascolto… che dire? Soltanto un banale frase fatta che Irving non userebbe mai: peggio per loro.

Recensione a cura di

Daniele Borghi, scrittore.

Daniele Borghi è nato a Roma, dove vive. Ha esordito con la raccolta di racconti Day & Night (Fazi-Libuk, 2001), a cui sono seguiti i romanzi Il nome di una privazione (Fara Editore, 2003), che ha ricevuto riconoscimenti in premi letterari, Pinocchio non abita più qui (Fara Editore, 2005) e Fuori è un brutto mondo (Il Molo, 2007). Per Fernandel ha pubblicato il romanzo L’altra vita di Emma (2010).

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