Haiti, il "miracolo" del pane fresco grazie al fornaio di Pordenone

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)Elettra(
00venerdì 22 gennaio 2010 13:08
Da Repubblica:

REPORTAGE. Un giorno con i volontari italiani tra fango e orrore
Sono due milioni gli sfollati alla disperata ricerca di cibo


dal nostro inviato ANGELO AQUARO
PORT-AU-PRINCE - Le pagnotte sono piccole e profumano di bontà. Calde e croccanti: che meraviglia. Per la moltiplicazione si sta attrezzando ma il miracolo dei pani Marco Randon l'ha già fatto. Ogni giorno il suo forno, l'unico, regala ad Haiti la gioia del pane fresco. Per carità: con due milioni di sfollati alla disperata ricerca di cibo ci vorrebbe davvero Gesù. Ma è sui piccoli passi della gente come Marco che s'incammina la ricostruzione dell'isola devastata. Gente come Marco, Carmine, Paolo, Giuseppe, Maria Carola. Un pezzo d'Italia di cui andare fieri dall'altra parte del mondo: tra il fango e l'orrore di Haiti.

Naturalmente non gliel'ha ordinato nessuno. Li chiamano mica per niente volontari. Tutti un po' matti: a modo loro. Marco, per esempio, che fa il fornaio a Pordenone, qualche anno fa s'è svegliato con un'idea pazzerella: visto che tutti parlavano dell'Africa alla fame, perché non andare lì a insegnare a fare il pane? È cominciata così l'avventura che dall'Africa l'ha portato ai Caraibi. Quando la Fondazione Francesca Rava, che qui gestisce un ospedale che in certa Italia se lo sognano, gli ha chiesto di aprire un forno a Port-au-Prince, Marco s'è precipitato. Il forno fa parte dell'attività collaterale dell'ospedale. Non basta curare: a questi ragazzi bisognerà anche offrire una prospettiva, un'ipotesi di mestiere. Così accanto al Saint Damien, l'unico ospedale rimasto in piedi con la Grande Scossa, qui sono sorti forno, officina meccanica e fornace. Il sisma adesso ha terremotato tutto. "Purtroppo non riesco a produrre più di sette, ottomila pagnotte al giorno. Ma se riusciamo a impiantare un altro forno... Vuole assaggiare? Pane italiano, farina di Haiti".

Qualche metro più in là Paolo Russo sta finendo di sistemare la sua officina meccanica. Arriva da Thiene, Vicenza. "Mai pensato a tuffarmi fin qua. Con mia moglie Marina una vita tranquilla. Poi una domenica leggiamo sul giornale questa storia incredibile: una bambina portata da Haiti al nostro ospedale. Salvata dall'inferno: quattro dita della mano e l'orecchio sinistro amputato. Cercavano casa per quella creatura. Abbiamo aperto la nostra. È cominciato lentamente: prima dividevamo gioia e fatiche con un'altra famiglia. Credetemi: mai cercati né evitati, i figli". La piccola Marie gli ha cambiato la vita. "È stata lei a portarmi fin qui: a farmi scoprire l'impegno. Quando ho saputo del terremoto ho rifatto subito la valigia. E Marie, che ormai ha 5 anni: "papà, possono venire anch'io ad aiutare i mie fratellini?"".

Sarà pure retorica facile. Ma benedetta. Dice Maria Carola, che all'ospedale di Pisa è la dottoressa Martino e qui una degli angeli della Protezione civile, che ciascuno fa la sua parte: anche quelli che rimangono a casa. "Possiamo ringraziare anche loro? Noi tutto sommato siamo sotto i riflettori: ma perché io sia qui, accanto a questo bambino, c'è un collega che in Italia sta facendo i turni di notte al posto mio". Altro che turni sta facendo la dottoressa Martino. Sveglia alle 4.50: i medici e i volontari della Protezione civile hanno trovato gentile ospitalità da una ditta, la Ghella, ma è a 60 chilometri dall'ospedale della Fondazione Rava, accanto al quale è nata la tendopoli italiana. Alle 7.30 già pronti a operare: una cinquantina di interventi al giorno. Tutta una tirata fino alla 8 di sera. Ancora due ore di pullman. Quel che resta è per la cena e il sonno. Poco? Giuseppe Annicchiarico, che del manipolo di medici è il responsabile, abbozza. "Siamo una struttura semplice e agile. È il nostro orgoglio". Venti tra medici e paramedici. Quattro tende d'ospedale, una per le apparecchiature. "Tutto inscatolato in 130 casse. Montiamo e smontiamo noi. Per non appesantirci troppo siamo partiti con una tenda in meno". Dovendo scegliere? "Le nostre toilette, naturalmente".

Meglio arrivare carichi d'altro. Qui era un disastro. Perfino al compound dell'Onu: quel martedì maledetto c'erano solo due dottori per il fiume di vittime. Carmine Liberale ha preso l'abilitazione da avvocato ma mercoledì mattina come decine e decine di volontari dell'Onu era già sotto la tenda piena di urla e barelle. "Guanti e mascherina. Non sono un medico e ho seguito solo il corso di primo aiuto qui all'Onu. Garze e medicazioni: quel mercoledì ho fatto di tutto". Carmine è un miracolato. Nel crollo dell'Hotel Christopher che ha ucciso tutto il comando di Haiti doveva esserci anche lui. "Ero tornato la sera prima da casa, Monteforte Irpino: sì, sono figlio di terremotati e sfollati anch'io. Il giorno dopo, quel martedì, c'era il solito briefing. La mia capa, Ericka Norman, mi fa: "tranquillo, riposati, il viaggio è stato lungo, ci vado io. Faremo il punto domani"". Ma non c'è stato più nessun domani.
© Riproduzione riservata (22 gennaio 2010)
rosarossa79
00venerdì 22 gennaio 2010 13:10
certo non servira a far tornare alla normalita' ma e' gia una bella cosa
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