00 08/05/2010 22:51
Il corpo (segue)

Il primo taglio fu sul braccio sinistro, dalla spalla al gomito, volli eseguirlo lentamente per gustare il dolore in ogni particolare, con calma eseguii un’incisione profonda e cauterizzai i vasi sezionati col saldatore. Il dolore era tremendo e riuscivo a sopportarlo perché il piacere psichico che mi procurava era ancora più forte. Per non rischiare sofferenze improduttive avevo pronte alcune fiale di morfina che mi ero procurato al mercato nero, ma non dovetti usarle quella volta.
Finito l’intervento ammirai la mia bella ferita, era rossa come non penseresti mai che possa essere la tua carne giacché di essa vedi solo lo strato esterno di derma che la ricopre e il primo pensiero che ti viene è che non è roba tua, non ti appartiene, è impossibile che tu sia fatto così, somigliante agli animali che vedi appesi in macelleria. Ed è per questo che devi conoscerti, sezionarti e vederti dentro, per capire quanto estranei siano il corpo e la mente e capire che una tale convivenza è l’atto politico estremo della natura, la sintesi che produce i concetti.
Io ancora non lo sapevo ma il culmine della mia malattia era una terapia della mente per scongiurare il distacco definitivo dal corpo, che avrebbe causato esiti irreversibili.
Quando il medico me lo disse io non volevo crederci, per un anno avevo martoriato il mio corpo credendo di punirlo e invece volevo riconciliarmi con lui, accettarlo come non avevo saputo fare fino ad allora. Nell’età in cui lui cominciava a morire, la mente che mentiva mi diceva d’essere il corpo e temevo che sarebbe morta anche lei, tutti gl’indizi e le conoscenze accreditavano questa ipotesi ed io non volevo accettarlo, non volevo credere ch’ero stato un corpo pensante fine a se stesso.
Mi diedi molti punti di sutura grossolani e nei mesi successivi mi procurai altre ferite al tronco, alle gambe, cucii il mio pene alla coscia e gli applicai coi rivetti il fodero di cuoio, pinzai stecche di legno e di plastica alle braccia, chiodi passanti ai polpacci e per ultimo provai a bucarmi un piede col trapano. Quello fu l’intervento che mi fece scoprire, perché la punta si piantò nel tarso e mi spappolò le ossa, gridai come un maiale al macello e i vicini chiamarono la polizia che buttò giù la porta e mi scoprì in un lago di sangue. Da quel giorno sono ricoverato in quest’ospedale e non vogliono dimettermi anche se io sono sicuro d’essere guarito.

Passarono mesi prima che le ferite si cicatrizzassero e gli arti riprendessero le loro funzioni consuete, anche la mia mente colpita dagli stessi malanni fu curata con garbo e guidata sull’asta sospesa per ritrovare l’equilibrio. I medici mi spiegarono che tutti rischiamo ogni giorno di mettere un piede in fallo e di perdere il contatto col mondo reale.
La realtà, mi dissero, è un’asta sottile che bisogna percorrere come un acrobata e non tutti ci riescono, qualcuno cade, altri lo fanno con abilità innata, altri ancora devono essere istruiti e guidati perché vogliono imparare, ma non è così semplice, razionalmente è facile immaginare che a trent’anni dovremmo essere già tutti pazzi. Ma l’uomo ha capacità di adattamento impensabili, riesce a inventare la serenità in situazioni disastrose, a elaborare il concetto di sé e adattarlo alle circostanze, a inventarsi giorno dopo giorno una propria identità che gli consenta di sopravvivere, questo è l’equilibrio.
In fondo, le mie perversioni giovanili relative alla sessualità, il voler mortificare la mia discendenza ibrida della quale riconoscevo gli estremi opposti, mio padre alcolista e brutale e mia madre angelica, erano un modo, primitivo o ingenuo, per mantenermi in equilibrio. Mio padre era il corpo e mia madre la mente, stavano insieme ma non avevano nulla che li accomunasse, tranne me che di entrambi avevo qualcosa, la volgarità del mio corpo e la soavità del mio pensiero.
La malattia si era rivelata quel giorno che mi guardai allo specchio e non mi riconobbi. La parte di me che nel corso degli anni si era allontanata verso dimensioni astratte e che si era costruita un mondo irreale, l’habitat ideale della mente, stentava a ricollocarsi in ambiti concreti, rigettava il concetto di sé quale strumento di guida e custodia del corpo e nell’imminenza di un distacco definitivo, che avrebbe annientato entrambi, un lampo di terrore l’aveva fermata. Ma non poteva rientrare sorridendo come se nulla fosse accaduto, già non si riconosceva più nel supporto riflesso, e tornando, credendolo estraneo ma sapendolo meta ne restò ai margini, inventò un gioco per coinvolgerlo e percorrere ancora i canali di scambio.
Il dolore in principio ch’era la via più rapida e poi l’olfatto, il gusto, l’udito, e quando alzai ancora lo sguardo in ospedale finalmente mi riconobbi.
Ero un grumo d’argilla raffazzonato senza garbo e tenuto su con stecche di recupero. Alcune erano fascette di legno fragile sagomate come cornicette da parati, altre ritagliate dalle bottiglie di plastica, altre ancora erano così grossolane da sovrastare con la loro volgarità ogni ispirazione di grazia. Ero una di quelle sculture d’arte povera che trovi pure alla Biennale, un gioco di bambino si potrebbe dire, o un passatempo di demente, o meglio ancora la prepotenza di chi vorrebbe far credere che lo stile e la tecnica siano concetti che devono essere superati e sostituiti dall’improvvisazione, disarmonica ad ogni costo per scatenare il disgusto nell’osservatore. Ero io, ero l’opera di un artista che non crede nemmeno più nel suo ruolo e si tuffa negli abissi della materia, ma l’opera lo contraddice e vive da sola la sua tragedia, e si arrampica, a volte arrivando a vette elevatissime.
Questo piccolo brutto essere ch’è l’uomo, a volte riesce a fare poesia o musica o pittura, una poca cosa ma uno sforzo enorme che commuove.

(fine)