00 07/05/2010 23:31
Il corpo (segue)

Quando varcai il cancello del cimitero una nuvola di storni, che s’era levata dai dossi, prese a liquefarsi e a gorgogliare sfilacciandosi mentre veniva risucchiata nella notte verdastra dei cipressi, ai miei lati i filari inseguivano una prospettiva ingenua fatta di fughe e steccati di tronchi, di pareti arboree graffite a tratti fini e leziose più di una pineta. La terra s’era ingiallita e levitando, trapassando gli scheletri degli alberi fioriva in cielo velandosi d’azzurro, lì abbagliata inverdiva, scivolava piangente e tornando ammuffiva sulle lapidi prima di balzare ancora nei sentieri spogliata dei colori, di nuovo antica.
L’ossimoro balzò pure su di me che antico mi sentivo da poco ma, immerso in un paesaggio che sembrava dipinto da Giotto, anche di nuovo stupito, mi sorpresi a immaginare testine d’angeli dipinte sul blu invecchiato e un presepio intarsiato su sfondi montani e lontano, sorgente dal sentiero appeso, un chiodo arrugginito ch’è un pino.
Ero ancora un bambino se volavo nel mio sogno, che fosse pure un cimitero e l’intonaco della cappella dei nonni o la nuvola di storni che ora ammansita, sputata dal bosco ondeggiava.
Le facce dei morti tutte occhieggiavano e sembravano dirmi sono qua, sono io, anzi è qua il mio sacco dismesso nel quale ho vissuto la mia avventura di uomo e dal quale son dovuto fuggire quand’è invecchiato o gli è capitato un incidente o s’è beccato una malattia. Ho creduto, come tutti, d’essere lui mentre facevamo la stessa strada, avevo dimenticato di averlo scelto per caso, giacché l’uno vale l’altro, quando lo incontrai a un bivio, poi il cammino fu lungo e lui aveva gambe buone, gli ho concesso i piaceri che cercava ma non erano i miei e a quel punto credevo già d’essere lui e l’ho creduto fino al bivio successivo, quando ha imboccato da un lato verso la terra da dove era venuto e io dall’altro, finalmente rinsavito nell’attimo della morte.
Ma dove siete, adesso? Ripetevo. Dove siete veramente?
Nessuno mi rispondeva, meno male perché se avessi udito una risposta allora era chiaro ch’ero pazzo, però mi figuravo nella mente tutte le possibilità e li immaginavo ora privati della gravità svolazzanti nei miei giardini, o in attesa, come alla fermata dell’autobus, di un altro corpo da colonizzare, o evaporati per sempre ai limiti dell’universo a formare l’antimateria che lo schiaccerà e poi esploderà di nuovo, o imprigionati ognuno nelle proprie cellule cerebrali per contare a ritroso gli ampere prima del sonno.
Come una batteria che si scarica e muore, così mi vedevo, ancora capace di trascinare un ingranaggio che emette un lamento d’agonia, o di accendere un lumino fioco che ansima.
Eppure riuscivo ancora a commuovermi. L’inganno dei sensi mi dominava ed io accoglievo il suo dominio, lo esaltavo credendo che i suoni e i colori e i concetti elevati espressi dagli artisti fossero il pane dell’anima, ma cominciavo a sospettare che anch’essi, ahimè, sono solo raffinati alimenti del corpo e se li riconosci ti senti più soave e leggiadro.
Come puoi esserlo dentro un porcile dove annaspi nel fango e negli escrementi e pensi che domani andrai a visitare una mostra o ascolterai un concerto o ti sdraierai nell’angolo più lurido a recitare poesie. Ah, che schifo mi facevo!

A un tratto mi sentivo talmente meschino che arrossivo pensandomi, ogni giorno che trascorrevo in compagnia del mio sacco m’insudiciava e non riuscivo a fargli capire che dobbiamo separarci, che ho altri interessi che non possiamo condividere. Lui era come un compagno che è buono per giocare a carte o per bere insieme un bicchiere di vino, ci potevo trascorrere due ore della giornata e invece lo avevo sempre fra i piedi, era invadente, pedante, presuntuoso, non lo sopportavo più ma non potevo ucciderlo perché avevamo condiviso troppe cose e avrei ucciso anche una parte di me, ma dovevo mettergli dei paletti che non doveva superare, solo così potevamo continuare a frequentarci.
Avevo pure dimenticato d’indossare il mio fodero di cuoio chiodato, perché il mio pene non era brillante come un tempo e non avevo tanto bisogno di punirlo, e poi dovevo far guarire le ferite per timore di controlli a sorpresa.
Ma ora volevo sentire un dolore, forte come una droga che ti spappola il cervello, mi serviva una bomba per annientarmi. Cominciai a smaniare in cerca di qualcosa, di uno strumento estemporaneo che potesse penetrarmi le vertebre e paralizzarmi e capitai nel cantiere di una cappella, trovai un chiodo e senza pensarci, con l’impeto del suicida, mi scoprii il petto e ne trapassai il muscolo da parte a parte.
Il dolore fu allucinante e mi piegò le gambe, smorzai il grido in gola ma non riuscii a trattenere le lacrime, per un po’ pensai di morire e lì, seduto accanto ai morti, mi sembrò un posto appropriato, poi il respiro, che sembrava si fosse arrestato trafitto dall’arma, riprese insieme a un lamento e piano la luce che m’aveva abbagliato cominciò a diradarsi e mi guardai.
Il chiodo era conficcato nel muscolo pettorale e lo passava da destra a sinistra poco sopra il capezzolo, il dolore era intenso ma cominciavo ad apprezzarlo in tutte le sue escursioni, dalle fitte tremende, al bruciore, al fastidio che procurava il corpo estraneo mentre i polmoni si gonfiavano. Lo toccai ed era ben saldo nella sua sede, non c’era il rischio che si sfilasse, perciò mi alzai, sistemai un fazzoletto sulla ferita ed abbassai il maglione, non sanguinavo molto perché di sangue ne avevo poco e il metallo tappava i vasi lacerati.
Mi sentivo meglio ora che il dolore mi collegava costantemente col corpo, tornai a casa ed ero felice pensando al mio chiodo infisso nella carne, quasi più che fantasticando sul paesaggio del cimitero immaginando il dipinto di Giotto. Sì, ero felice e ogni tanto mi toccavo il petto per sentirne la forma sconvolta e la bozza di fibre ingrossate dall’edema. Davanti allo specchio mi denudai, indossai il fodero di cuoio e sorrisi di quel giocattolo quasi innocuo ch’era ormai un ricordo della mia gioventù, ero grande adesso e avrei giocato col mio corpo adulto con strumenti adeguati.
Il dolore nuovo che provavo era lì visibile ed era una porta su un territorio sconosciuto che non mi sarei aspettato di scoprire a quel punto della mia vita. Quando pensavo che niente mi avrebbe più emozionato era invece arrivato un amore grande, un’altra partenza che mi dava l’entusiasmo e il batticuore dei ragazzini. Avevo sostituito il vertice della piramide con l’area della sua base che può essere infinita, il culmine non percorribile e acuto fino agli estremi sconosciuti della geometria, con un pianeta così vasto da non bastare una vita per conoscerlo.
Il primo passo fu di procurarmi gli strumenti adatti, in pochi giorni montai un piccolo compressore e vi applicai una pinzatrice, di quelle che servono per montare gli imballaggi di cartone, in farmacia acquistai ago e filo per suture, bisturi e pinze, siringhe e fiale di antibiotici e un vaccino antitetanico, non potevo rischiare che il compagno mi si ammalasse proprio ora, cicatrizzanti e anestetici per i casi d’emergenza, garze e bende e organizzai la mia sala chirurgica. Sistemai tutto il materiale sopra un carrello accanto allo specchio e restai per ore ad osservarlo immaginando la funzione di ognuno e mimando le operazioni che avrei compiuto. Il cuore era in fibrillazione e non ricordava più il suo ritmo esatto, andava veloce ed io mi lasciavo prendere dall’eccitazione come un sub che ha respirato per troppo tempo dalla sua bombola d’ossigeno, dovevo compensare con periodi di apnea e concentrazioni profonde per restare presente a me stesso. Ero in viaggio, ero io che me ne andavo e non sapevo nemmeno quando e dove sarebbe stato l’arrivo.

(continua)