|
27/07/2009 19:27 | |
Fu mio nonno ad insegnarmi il "culto" del vino e per lui esisteva solo il rosso di produzione meridionale, Pachino, Pellaro, Cirò ed anche vini più "frivoli" come quelli locali delle nostre campagne più prossime, Arghillà, Sambatello, Scilla, tutti prodotti con vitigni Gaglioppo e Nero d'Avola trapiantato nelle nostre terre calcaree.
La caratteristica chimica della nostra terra ha consentito la produzione di ottimi vini che oggi si sono conquistati una nicchia di mercato a livello nazionale. Un esempio è il Cirò, un vino rosso corposo e di buona gradazione (14°), duro e asprigno a volte, a seconda delle annate e dell'invecchiamento, che preferisco sulle grigliate di carne e sui formaggi stagionati, ottimo anche il Pellaro (14°), meno duro del Cirò e con retrogusto fruttoso, che abbino ai piatti elaborati con sughi, al pescestocco alla calabrese con patate e olive bianche, e ad altri piatti dal gusto importante.
La produzione di Pellaro è esigua e le bottiglie sono già prenotate un anno prima, ma io ne faccio sempre una buona scorta. Purtroppo è un vino che si acquista solo dal produttore anche se vengono immesse sul mercato bottiglie che di Pellaro hanno solo il nome.
Il vino non serve per dissetare, è un complemento della pietanza e come tale va gustato, un sorso alla volta, per coglierne tutti i segreti e la sua storia, per sognare la brina delle mattine di marzo sui grappoli verdi e duri come la pietra, per ascoltare il frullo dei passeri che scavano nella sabbia e sotto le cortecce, per sentire le nenie dei contadini e le marcette sconce dalla vigna al motocarro, le risate delle donne, e la pioggia che lava il verderame e gli insetti che aggrediscono gli acini, il silenzio religioso delle cantine, il tormento del mosto, lo zampillo acerbo dell'11 novembre.
Il vino è un rito che si perpetua.
|