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Il corpo - un racconto di basettun dedicato a Roberto, ricoverato presso il reparto di psichiatria dell'ospedale di T.

Ultimo Aggiornamento: 09/05/2010 21:52
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30/04/2010 23:49
 
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Il corpo


Era un grumo d’argilla raffazzonato senza garbo e tenuto su con stecche di recupero. Alcune erano fascette di legno fragile sagomate come cornicette da parati, altre ritagliate dalle bottiglie di plastica, altre ancora erano così grossolane da sovrastare con la loro volgarità ogni ispirazione di grazia. Era una di quelle sculture d’arte povera che trovi pure alla Biennale, un gioco di bambino si potrebbe dire, o un passatempo di demente, o meglio ancora la prepotenza di chi vorrebbe far credere che lo stile e la tecnica siano concetti che devono essere superati e sostituiti dall’improvvisazione, disarmonica ad ogni costo per scatenare il disgusto nell’osservatore. Nemmeno il jazz aveva mai osato tanto.
Le molecole di terra mischiate malamente con l’acqua avevano afferrato bolle d’aria che col tempo erano esplose dando origine a crepe e crateri, le stecche cedevano alla contrizione della materia consapevole del suo stato che pentita si rannicchiava negli angoli della coscienza, scattavano come molle e ricadevano sul piano d’appoggio o si reggevano a malapena con le schegge dei tagli maldestri. I fari d’illuminazione fondevano la plastica che si arrotolava ed eseguiva il suo piano di sopravvivenza concordato con gli atomi mentre l’artista gioiva nel vedere la sua creatura viva disfarsi nel breve tempo dell’esposizione.
Trasformarsi, diceva lui, evolversi da opera messa insieme dall’uomo a mucchio di elementi che si scatenano dalla presunzione umana e si legano e si slegano rispettando solo le leggi antiche della natura.
Più in là, in una stanza da imboccare col respiratore c’era un bue morto da almeno due mesi appeso per il muso, anche lì la natura si riprendeva il suo martoriando quelle carni decomposte per metà sul pavimento lucidato a specchio, dove l’artista senza mascherina e completamente nudo aspirava il fetore e sembrava godere ad ogni respiro. La vita e la morte era il titolo dell’opera, ma la morte sembrava vivere una sua vita sconosciuta che giorno dopo giorno si trasformava in altre migliaia di vite, prima in batteri, poi in larve, poi in insetti, e poi in lombrichi che si nutrivano di quell’ammasso puzzolente, e nessuno ce l’aveva messi, nascevano da soli dagli organi putrefatti come se fossero stati sempre contenuti nel bue quando galoppava sui prati. E lui, l’artista, sembrava galoppare verso quel traguardo con tutta la pelle al suo posto e gli arti, gli organi, il cervello attivo che si chiama mente e forse mente davvero perché ti fa credere vivo e invece sei già morto, invecchi giorno dopo giorno e ti decomponi senza saperlo. La morte e la morte doveva essere il titolo dell’opera.
Ma io non potevo esprimere a voce alta la mia critica e rimuginavo tra me e me borbottando, a volte rivolto a una platea virtuale ch’era nella mia mente e beveva la mia lezione come se fossi stato un professore all’università.
Un professore obsoleto, forse, uno di quelli che gli allievi giudicano un tirannosauro sopravvissuto all’estinzione ma che regge il gran peso d’una Cattedra insigne. O era così che preferivo apparire a me stesso ora che la via non prevedeva più svolte al culmine della maturità e nessuna pratica audace sarebbe stata ormai credibile, dovevo aver trovato la strada maestra che fosse vero o no e perseguirla fino in fondo. La saggezza, credevo, è una secchiata di colore che a un punto avanzato del percorso ti tinge all’improvviso senza che tu abbia il tempo di scansarla e ti coglie impreparato se non l’hai costruita con metodo, ma quando sei tinto devi consolidare le tue convinzioni in quel preciso istante congelandone le evoluzioni ancora possibili.
Trent’anni prima mi ero scontrato con un’automobile piena zeppa di panini raffermi in una sala di “Contemporanea” a Roma, quando mi ero ripreso dall’orrore avevo dato un’occhiata tutt’intorno e avevo scoperto una tela blu tagliata in verticale, un pannello bianco con un punto al centro e serigrafie di margherite su enormi falli di plastica. Ero troppo giovane per temere secchiate imminenti di saggezza e mi ritrovai chino sulla carrozzeria a studiare le infiorescenze di ruggine, e poi a scrutare dentro il blu profondo che precipitava nell’antro subacqueo per scoprirvi barlumi, e ancora a cercare indizi di poesia nei gialli fluorescenti e nei bianchi slavati sui peni artificiali, persino il punto nero a un tratto apparve interessante, se non altro perché circondato di nulla e perciò mi somigliava. Presi la mia mente curiosa, che mentiva anche allora come adesso giacché sapeva costruire piramidi col vertice in giù perfettamente stabili e non m’insegnava nulla dei criteri d’equilibrio dei solidi, e la schiaffeggiai per non aver saputo immaginare nulla di così ardito, e da quel giorno i miei paesaggi cominciarono a scoppiare e i blu, i verdi, persino i rossi così difficili tracimarono dai recinti disegnati dalle maestre e a un tratto li vidi spanti e per nulla timorosi di rimproveri.
Ma ero poco più che un ragazzo, lo spazio che mi stava intorno mi appariva immenso e inesplorato esattamente come il bianco attorno al punto nero e non mi sfiorava l’idea che il mondo fosse già disegnato, che le Terre vivessero già la loro vita da millenni, che altre civiltà avessero conosciuto splendori o proliferassero anonime e decadenti. Tutte le cose aspettavano che io le scoprissi e solo allora si sarebbero manifestate, solo allora sarebbero nate a quel livello della loro evoluzione che non era oggettiva e scardinata dalla mia conoscenza ma ad essa stabilmente collegata e conseguente. Mi sentivo eruttato al centro di un mondo bianco che auspicava i segni della mia matita ed espletavo il compito con frenesia per rivelare una mappa la più vasta possibile ad ogni punto cardinale, certo che la vastità di territorio che mi avrebbe accolto dipendeva solo dalla velocità con la quale lo avrei scoperto.
E forse era così, non avevo dubbi, allora, che ogni cosa, anche la più orribile, svolgesse un ruolo importante nella mia avventura, che la curiosità e l’intraprendenza fossero il motore della mia ricerca, alimentato anche dalla paura che invece di frenarmi causava ulteriori scatti d’orgoglio affinché m’opponessi alla tentazione della codardia. Ogni lembo di conquista anziché crogiolo di vanità diventava la roccaforte dalla quale progettare le future sortite, le vittorie ribadivano l’istinto di condottiero che mi scorreva nelle arterie e ossigenava la mente che mentiva spudorata già d’allora ed io non m’accorgevo del disegno criminoso ordito dalle mie stesse cellule contro di me che le nutrivo.

(continua)
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