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Il corpo - un racconto di basettun dedicato a Roberto, ricoverato presso il reparto di psichiatria dell'ospedale di T.

Ultimo Aggiornamento: 09/05/2010 21:52
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02/05/2010 22:47
 
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Il corpo (segue)

Il mio pene era il nemico più crudele che avessi mai avuto ed ero costretto a portarlo sempre con me, fin da quando ero bambino e lo credevo un giocattolo che allevia la tristezza delle giornate. L’ansia della solitudine mi tormentava quando mia madre mi lasciava solo per andare a lavorare o per recuperare mio padre, perduto in qualche osteria la sera a piangere la nostra povertà, mi chiudevo in una stanza e lo guardavo penzolare fuori della cerniera mentre facevo i compiti o guardavo la televisione. Lo immaginavo come il naso o come un dito di una mano, come un orecchio che non va vestito eppure non provoca scandalo, sembrava un compagno strano che non parla e sta per i fatti suoi ma ti ascolta anche se dici sciocchezze, lo sbattevo sui bordi dei mobili, lo punzecchiavo con la penna, gli spennellavo la punta con la tempera e stampavo i suoi baci sul muro, lo chiudevo fra le pagine di un libro e poi mi appoggiavo con tutto il peso per fargli male. Lo sporcavo di nutella e lo davo in pasto alle mosche che venivano a mangiare la mia merenda, quelle si posavano a sciami e lo succhiavano con le proboscidi fino a farlo diventare duro, poi qualcuna entrava nel cratere del prepuzio ed io la imprigionavo e godevo del suo ronzio. A volte lo legavo stretto con uno spago sotto il glande e lo tiravo come se fosse un cagnolino che non vuole camminare, lo strattonavo, lo impiccavo, lo legavo alla maniglia della porta e mi appendevo stirandolo. Restavo così giornate intere soffrendo per quella stretta ma provando un piacere lento e continuo che solo il dolore può dare. Quando lo liberavo lo immergevo in un bicchiere di latte freddo e poi bevevo il suo sollievo.
Non credo di essere stato un bambino normale, chissà, forse dovrei chiedere ad altri se da piccoli hanno giocato con il loro pene quando ancora non ne intuivano la funzione sessuale, e se fargli male era soddisfacente come lo era per me. Certo, il male lo facevo a me stesso e ne sentivo il dolore, forse volevo essere cattivo con qualcuno e non ne avevo il coraggio ma avevo scoperto il modo per somministrare il male e provarne le conseguenze, cosa che un cattivo convenzionale potrà solo immaginare. Probabilmente dovevo solo sperimentare la mia aggressività che in futuro avrei praticato con diletto e con le stesse modalità.
Da ragazzo avevo imparato sistemi di tortura più raffinati, mentre gli altri facevano le prime esperienze sessuali con le ragazze, io avevo costruito una ghigliottina su misura, lo infilavo nel foro e mollavo un pezzetto di compensato caricato con l’elastico. Ad ogni colpo vedevo le stelle ma lui si gonfiava incurante del dolore, e più diventava duro e il dolore aumentava ad ogni colpo, più dovevo forzare me stesso per infierire e farlo godere così, dopo decine di staffilate davanti allo specchio che mi rimandava il film del mio orgasmo. Anche quella che chiamavo la sedia elettrica era uno strumento piacevole, funzionava con due batterie da nove volt collegate tra loro, un polo lo collegavo ai testicoli con una pinzetta e l’altro doveva raggiungerlo il pene mentre lo spennellavo con l’acqua per stimolare l’erezione. Il cuore andava a mille mentre lo vedevo procedere dentro le guide per collegarsi e chiudere il circuito.
Di là in cucina sentivo le urla di mio padre che non trovava più la bottiglia che aveva nascosto. Lui sapeva che mia madre l’aveva svuotata nel lavandino ma lei negava con tutte le sue forze e gli diceva che deve curarsi, che non può andare avanti così, che bell’esempio che dà a suo figlio. Non era un bell’esempio un padre alcolista, ma io di lui sapevo mentre lui di me non sapeva niente, nemmeno mia madre sospettava le attività perverse di cui ero protagonista e vittima allo stesso tempo.
Lei era una maestra ed era la donna più dolce e garbata che io abbia mai conosciuto, non ricordo di averla mai sentita gridare, nemmeno quando mio padre dava in escandescenze per via della sua malattia, lei era sempre benevola, cercava di calmarlo mentre io mi chiudevo a chiave in una stanza e mi tappavo le orecchie coi fazzoletti di carta, poi veniva a cercarmi e mi consolava raccontandomi di lui quand’era giovane, quando non era ammalato e passeggiava come uno sparviero sui ponti dei grattacieli in costruzione. Non era molto tempo prima, solo qualche anno, lo spazio di una caduta e di un lungo ricovero in ospedale, il trauma alla testa gli aveva portato via il senso dell’equilibrio e lui lo cercava dentro le bottiglie.
Ed ancora quando avevo vent’anni non riuscivo a parlare con le femmine e i maschi non m’invitavano alle feste perché parlavo di filosofia ed ero pesante come un mattone, dicevano, e facevo scappare le ragazze. Non sapevano che ogni volta che scambiavo due parole con una donna il mio pene diventava duro e dovevo nascondermi per la vergogna, che lo avevo costretto in un tubo di cartone legato stretto sulla coscia e lui anziché gonfiarsi si allungava a dismisura e doleva come se me lo stessero strappando, perciò parlavo di filosofia o di storia o di politica, per distrarlo, invece di appoggiarlo sul pube di una compagna d’università mentre si ballava al buio, come sarebbe stato normale se io fossi stato normale, cioè un uomo che lascia sfogo agli istinti quando è necessario e diventa animale quando è l’ora di esserlo.
Privilegiare il pensiero non era l’alternativa ma l’unico modo di concepire la mia vita, e quella bestia che la natura mi aveva messo tra le gambe era il risultato di un accoppiamento ibrido fra una divinità, forse, e un animale, forse, così da ritrovarmi parti dell’una e dell’altro che non riuscivano a convivere. Ma a chi somigliavo di più?
Verso i trent’anni, quando già insegnavo in una scuola della provincia, dovevo frustarlo tutte le mattine prima di uscire di casa, lo castigavo per fargli capire che il padrone sono io e sono migliore di lui, che lo tenevo con me solo perché non potevo tagliarlo e buttarlo via, poi lo fasciavo col nastro adesivo ma lui coi sobbalzi del treno scappellava e diventava come una cipolla grosso e viola e mi faceva piangere per il dolore. Dovevo stringerlo con la mano dentro la tasca bucata e farlo sfogare nel fazzoletto prima di arrivare a destinazione, poi buttavo i suoi semi nelle gallerie dove il buio non li avrebbe fatti germogliare.
Guardavo le donne da sotto gli occhiali scuri sdraiate e scosciate davanti a me e mi apparivano desiderabili dapprima e subito dopo ignobili segnali di bestialità esibita al solo scopo di sedurmi. Ma ero forte e sapevo contenermi, capivo ch’era lui che le voleva e dovevo resistere ai suoi tentativi di plagiarmi, voleva prevalere su di me ch’ero un uomo sfoderando il fascino della sua meschinità, e subito dopo l’odiavo ancora di più, gli promettevo ore di torture una volta tornati a casa ma lui era indomabile, sembrava un eroe dei film di guerra.
Per combattere quella guerra avevo dovuto approntare tutta una serie di armi che tenevo nel cassetto, mollette col bordo seghettato, morsetti a vite, corde di nailon col nodo scorsoio, ma lo strumento più terribile era un fodero di cuoio coi lacci incastonato di chiodi con le punte che sporgevano all’interno, appena tornato a casa glielo facevo indossare e lui era costretto a stare quieto per non restare infilzato. A volte, però, anche senza volerlo, pescava qualche pensiero lascivo tra i ricordi e cominciava il supplizio, più s’ingrossava e più le punte dei chiodi seviziavano la carne, e più lui mi trasmetteva il suo dolore col tramite del cervello che abbiamo in comune, più io godevo all’idea del suo malessere che aumentava e lo menavo con la rotazione dei fianchi a destra e a sinistra sbattendolo sul bacino, sugli stipiti delle porte senza concedergli sollievo. Restavo così pomeriggi interi agonizzante all’apice della sofferenza e del piacere insieme senza cedere all’una né all’altro.

(continua)
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