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Il corpo - un racconto di basettun dedicato a Roberto, ricoverato presso il reparto di psichiatria dell'ospedale di T.

Ultimo Aggiornamento: 09/05/2010 21:52
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03/05/2010 23:36
 
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Il corpo (segue)

Non ricordo qual è stato l’inizio di questa interdipendenza che riconosco blasfema, da quando il dolore ha generato il diletto, forse l’ho scoperta per caso quando ho deciso che il mio istinto sessuale andava umiliato giacché rappresentava il lato ignobile ed oscuro di me, ma so che d’allora è progredita insediandosi in territori disabitati, in deserti che sarebbero rimasti aridi, e la geografia del mio mondo s’è ampliata.
Dapprima avevo percorso come un acrobata la linea di confine, quella fascia sottile di pochi secondi che precede l’orgasmo, oltre la quale c’è una nazione sconosciuta, presidiata da sentinelle che non ti danno spiegazioni ma t’impediscono il passo, avevo indugiato con lo sguardo ma sapevo solo immaginare ciò che il paesaggio mi negava, all’apparenza scarno e privo d’attrattive, ma che la mia fantasia impreziosiva in lontananza con città risplendenti forse più di quelle conosciute e visitate tante volte.
Un passo oltre la linea fu una violazione veniale, un morsetto dentato stretto al culmine della masturbazione, che rientrava con l’andamento della camminata nei recinti prescritti lasciandomi solo una foto rubata, poi sentieri sempre più lunghi celati alla visuale delle guardie ma sempre orientati al ritorno più o meno celere a seconda delle circostanze e il mio album s’arricchiva di ricordi che potevo consultare nei momenti di noia. Fino alle sortite di un’intera giornata che mi lasciavano il gusto del turista che aspira all’integrazione, che adotta usi e costumi esotici pur di rivelarsi formattabile.
Cosa accadde dopo non lo so, il dolore temporaneo, finalizzato ad esaltare il piacere in quanto sensazione antagonista, lo sostituì diventando esso stesso motivo di godimento che prescinde dall’eiaculazione. Ogni volta che la mia personalità vera cedeva all’altro me privo di dignità morale, dovevo percorrere una strada irta che era esclusivamente fisica e di quella fisicità teatro impietoso di réclame, un tubo infilato nella succlavia che incurante dei tuoi sforzi evolutivi ti nutre di brutalità, mortifica le aspirazioni ad un’esistenza cortese sbattendoti in faccia le tue origini che non puoi rinnegare.
Non fu un passaggio repentino, ma un giorno mi scoprii a vivere e ragionare la mia giornata in funzione dei supplizi che dovevo infliggermi, o che dovevo infliggere al corpo per punire le sue intenzioni d’esistenza troppo diverse dall’evoluzione mentale che avevo raggiunto. Ma era paradossale che provassi piacere nell’organizzazione delle torture, nella costruzione degli strumenti, nel pensiero stesso del dolore che avrei provato applicando le mie invenzioni. Era un piacere sessuale, un’eccitazione fisica che non aveva giustificazioni, stimolante più di quanto potessero le immagini sensuali archiviate nella mente.
I preliminari con la costruzione e l’applicazione dello strumento mi causavano il batticuore che durava fino ai primi sintomi di malessere e lì interveniva il desiderio di provare un livello superiore, ma anche l’istinto di sottrarmi al supplizio. Queste due forze erano equivalenti. L’intensità del dolore sembrava collegata all’erezione in modo direttamente proporzionale, qualche volta avevo smesso la tortura e il cedimento mi aveva causato dei sensi di colpa per aver privilegiato la componente materica di me, quella che si cura di mantenere il corpo sano ed efficiente per poter svolgere le sue funzioni nel migliore dei modi, ma sapevo già che l’obiettivo finale della strategia della natura consisteva nella riproduzione della specie perseguita attraverso i tentativi ripetuti di procreazione, e la consapevolezza di una tale riduttiva funzione mi causava un patimento insopportabile.
Io volevo sottrarmi a quest’obbligo ma pretendevo che anche il corpo lo rifiutasse, volevo che il mio pene si ergesse alienando la lussuria, fantasticando e realizzando la propria pena, perciò riprendevo con più ardore, questa volta forzando l’autotutela delle mie cellule, il loro principio costitutivo, e realizzavo con determinazione ciò che mi faceva sentire più che uomo, non molto, un gradino più su, forse, quel tanto che bastava per credermi non completamente assuefatto alla bestialità e che poteva sembrare un trampolino di lancio verso sviluppi sovrumani.
Decenni di abitudini animalesche, seppur moderate dalla mia personalità rivolta all’evoluzione, avevano reso ancor più evanescente il senso spirituale che mira al divino, il traguardo estremo della psiche umana, ch’era mortificato dallo scenario dei corpi e suo malgrado costretto a vestirne le membra. Aspiravo ad elevarmi trascinando un peso grave che non riconoscevo ma col quale ero costretto a transazioni umilianti.
Tuttavia la mia abilità riusciva a mediare soluzioni politiche soddisfacenti, verso i quarant’anni ero riuscito a dominare la tendenza alla virilità educando la mente agli incontri ravvicinati con l’altro sesso, non soffrivo più di erezioni selvagge scatenate dalla presenza di una donna, sapevo dialogare con le mie allieve allampanate che mi sventolavano i seni sulla faccia o col grembiule corto della domestica che spolverava il lampadario senza mostrare il minimo segno di debolezza carnale, un po’ come il ginecologo che conversa con la paziente mentre le infila due dita in vagina. Il mio pene se ne stava zitto e buono nel suo fodero di cuoio chiodato e ogni tanto gli mandavo una scarica elettrica dato che lo tenevo costantemente collegato col circuito mobile.
Le donne in attività sessuale che mi parlavano non potevano immaginare le mie dita che le stupravano, né il mio pene nella sua armatura né tutti gli anni di torture che mi ero inflitto, nemmeno a guardarmi dritto negli occhi sapevano leggere il ribrezzo per la loro funzione e a volte pensavo che avrei dovuto punirle inventando strumenti anche per esse, peni artificiali che rivelano chiodi a comando, morsetti dentati per il clitoride, circuiti elettrici collegati ai capezzoli. Ma avevo paura di questi pensieri, erano come un altro territorio sconosciuto che mi affascina ma che è così infido da non provare a calpestarlo senza aspettarsi agguati, piuttosto lo avrei percorso concordandolo con una compagna d’avventura animata dagli stessi propositi, ma era troppo tardi.

(continua)

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