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Il corpo - un racconto di basettun dedicato a Roberto, ricoverato presso il reparto di psichiatria dell'ospedale di T.

Ultimo Aggiornamento: 09/05/2010 21:52
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05/05/2010 23:26
 
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Il corpo (segue)

La sorpresa fu di trovarmi in un luogo così lontano dai giardini di serenità che sognavo, non un’opera che fosse degna d’essere ammirata, non pittura né scultura ma accozzaglie informi di materiali eterogenei che avevano lo scopo di scioccare l’osservatore.
Avevo sempre pensato che l’artista fosse come un sacerdote e che aiutasse a condurre lo spirito umano verso sentimenti elevati, quelli che la lotta quotidiana per il lavoro, il guadagno, il benessere materiale costringe in spazi sempre più angusti e che sei costretto a visitare di rado, perché ti manca il tempo o perché ti assuefai alla brutalità della vita e non ne senti più la necessità. Perciò esistono i musei, pensavo, come esistono le chiese dove vai a cercare la consolazione divina, e lì non ti aspetteresti mai di trovare una bancarella del mercato o lo sportello di una banca, ci trovi un sacerdote al quale non chiedi consigli su come investire i tuoi soldi, ma gli chiedi di farteli dimenticare, di farti capire che non sono importanti come credi, di farti pensare a cose più belle e più utili persino della tua prosperità fisica.
Paul Klee diceva che l’arte, pur con tutti i suoi limiti, serve a rendere visibile ciò che non lo è, perciò ad insegnarti a vedere con gli occhi dell’anima, quella parte di te immacolata che ha bisogno anch’essa di nutrimento, io ci credevo ed era quello che cercavo ma a quella mostra avevo trovato lo squallore dell’esistenza tangibile, gli abissi dove la materia s’incontra con l’uomo e lo inganna a tal punto da convincerlo ch’è solo materia.
Non sentivo più l’appetito di cose nuove che avevo da giovane né la curiosità che mi spingesse a cercare segnali fonetici dispersi da ricomporre in poesia, chi aveva seminato lumicini non poteva aspettarsi che io li cogliessi per farne un faro, perciò me ne andai e presi a girare per le strade in attesa di un’idea di destinazione.
Le persone mi sembravano volpi affamate che annusano i solchi e a passi spediti perlustrano il campo, si fermano e drizzano le orecchie per ascoltare i rumori soffiati dal vento, poi riprendono la cerca al limitare del pioppeto e nei canti dei muretti, lungo i filari di viti per raccattare acini o azzannare musi di talpe affiorate nei fossi.
Le cornacchie giravano larghe sui dintorni della città, nei pressi del vecchio cimitero assediato dai castagneti dove da ragazzo andavo a cercare i funghi e mi sedevo sotto nonno Giobbe, un albero secolare che aveva i rami orizzontali lunghi decine di metri, aspettavo che gli uccelli neri, dopo aver becchettato sui dossi delle tombe, venissero a posarsi all’imbrunire. Nella mia mente di ragazzo c’era l’idea che mangiassero la carne putrida dei morti e che fossero neri per questo, anche il loro verso sgradevole faceva supporre che si nutrissero di cadaveri, perciò avevo ideato uno stratagemma per indurli a beccare il mio pene, mi ero sdraiato ai piedi di nonno Giobbe e mi ero ricoperto di foglie lasciando uno spazio proprio lì dove il mio nemico languiva cinereo. Ma solo una gazza si posò nei pressi e nemmeno lo scambiò per un lombrico, così che dovetti riportarmelo a casa anche quella volta e la sera lo ghigliottinai diverse volte fino a farlo svenire.
Quel ricordo mi aveva commosso e pensai che avrei dovuto rivisitare quei luoghi, magari con la scusa di andare a far visita alle tombe dei nonni, ché tutti erano lì dormienti da tempo, e programmai la gita per il prossimo due Novembre.
Nel frattempo mi ero ammalato di quella che poi i medici definirono gastroenterite psicosomatica, dato che tutti gli esami possibili e immaginabili esclusero qualsiasi altra patologia. Successe che cominciai a star male e pensando che fosse un’influenza mi curai da solo con l’aspirina ma ottenni il risultato di dover far uso del bagno dieci volte al giorno. La frequentazione di quella stanza si rivelò traumatica e dovetti fare i conti con questa schifezza di corpo che, per la prima volta dopo tanti anni, contravveniva al nostro accordo ed esprimeva tutta la sua barbarie senza ritegno.
Mi sentivo così vile per non riuscire a frenare in alcun modo quell’esplosione di volgarità che si manifestava inaspettata e proprio nel momento in cui avevo più bisogno di stare in pace con me stesso, per poter affrontare lucidamente quel passaggio difficile verso la vecchiaia. Sembrava che il corpo me lo facesse apposta a rendermi tutto più drammatico, come se volesse dirmi, sì, finora sono stato buono perché tu avevi una mente vivace e sapevi dominarmi ma ora che cominci a rallentare prendo il sopravvento e ti faccio vedere io chi comanda. Lo sentivo torcermi da dentro e procurarmi un dolore che non trovavo affatto piacevole, del tutto diverso da quello che sapevo procurarmi da solo, non erano le mie torture godibili ma la risposta del nemico indomito che ha subito paziente l’assedio e infine approfitta di una distrazione per reagire con tutte le sue forze residue.
Una notte i vicini, sentendo i miei lamenti, mi portarono in ospedale e lì mi attaccarono a una flebo. Durante una visita i medici si accorsero del mio pene e mi fecero un sacco di domande, io non sapevo che rispondere e non volevo raccontare i fatti miei, dissi che m’ero lavato con un sapone che mi aveva procurato un’allergia, ma altro che allergia, dissero, quelle erano cicatrici, punture di chiodi alcune sanguinanti o in suppurazione, lividi prodotti da traumi ricorrenti. Non dovetti apparire sincero e nemmeno molto lucido, chiamarono lo psichiatra che mi chiese se svolgevo pratiche erotiche sadomaso ma io mi serrai la bocca e non risposi più a nessuna domanda.
Fui dimesso dopo un mese e i medici mi dissero che non avevo nessuna malattia, almeno fisica, mi dissero pure che avrei dovuto presentarmi nel reparto di psichiatria una volta la settimana e che un assistente sociale sarebbe venuto a trovarmi a giorni alterni. Ma io non lo vidi mai, forse perché non era facile trovarmi durante il suo orario di servizio, uscivo presto e rientravo a pomeriggio inoltrato passando la giornata nella cittadella universitaria o per musei e gallerie d’arte. La sera staccavo il telefono e mi chiudevo in biblioteca.
Per qualche settimana mi presentai all’ospedale e parlai con lo psichiatra, parlai di storia e di filosofia, non certo delle mie abitudini, finché lui capì che non ero pazzo dato che non davo in escandescenze ed ero lucidissimo, qualche volta provò a farmi domande sulle condizioni del mio pene ed io gli dissi che non avevo alcuna intenzione di parlarne e che le mie perversioni sessuali erano fatti miei. Forse si convinse ch’ero solo un depravato e mi lasciò libero.

(continua)
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